Ambaradam

Guerra in Etiopia

A volte la cultura popolare precede quella accademica. Non da molti anni c’è piena coscienza (e ci sono studi documentati e approfonditi) dei crimini dei militari italiani in Etiopia, nel corso della guerra fascista del 1935-1936, occasione in cui furono sperimentate e utilizzate armi chimiche contro anche la popolazione civile: se la classe politica democratica ha preferito non aprire quella tragica pagina della storia italiana, gli studiosi hanno dovuto aspettare l’apertura degli archivi per poter fare luce.

Una delle battaglie decisive di quella guerra fu nel febbraio 1936 sul massiccio dell’Amba Aradam. Le forze italiane, al comando del generale Pietro Badoglio, avevano già conquistato gran parte del paese, ma erano ancora impegnate nella lotta contro le truppe etiopi, guidate dall’imperatore Haile Selassie. Amba Aradam era uno dei principali obiettivi delle truppe italiane, poiché rappresentava una posizione strategica per il controllo della regione. Tuttavia, la montagna era anche nota per la sua difficile accessibilità e le sue ripide pareti rocciose, che la rendevano una fortezza naturale praticamente inespugnabile.

L’esercito italiano vinse con molte perdite (800 militari) dopo dieci giorni di conflitto, ma i morti etiopi furono ancor di più: almeno 20 mila, tra militari e civili. A causare la strage furono i gas tossici, utilizzati non solo per vincere sul campo, ma anche per indurre gli etiopi a non ribellarsi all’esercito occupante all’indomani della fine del conflitto.

Guerra in Etiopia

Tornati in patria, i militari italiani cominciarono a utilizzare l’espressione «come ad Amba Aradam» per indicare una situazione caotica. L’espressione ha avuto successo e col tempo, complice una pronuncia che risulta buffa alle orecchie di un italiano, la parola «ambaradam» si è trasformata in «caos divertente». Resta la curiosa storia di una parola che rimanda a una tragica vicenda, i cui confini si sono potuti spiegare soltanto molto tempo dopo.

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