L’insostenibile leggerezza dell’essere

“La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con la paura”. Milan Kundera pubblica per la prima volta il libro “L’insostenibile leggerezza dell’essere” in Francia, nel 1984. “La pesantezza, la necessità e il valore sono tre concetti intimamente legati tra loro: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore”: ciò che ci appare leggero possiede, in fondo, un peso che è insostenibile, come la vita, come l’amore “gli amori sono come gli imperi: quando scompare l’idea su cui sono fondati, periscono anch’essi”. Il libro è ambientato a Praga, tra il periodo della Primavera di Praga e la successiva invasione, ma la storia come nella vita è solo lo sfondo, perché le vicende ruotano tutte intorno ai quattro personaggi protagonisti: Tomas, Tereza, Sabina e Franz. Il romanzo, uno dei più belli per poesia e spunti, ci mostra gli abissi dell’incanto: “La bellezza è un mondo tradito. La possiamo incontrare solo quando i persecutori l’hanno dimenticata per errore da qualche parte”. Un libro che consiglio di leggere quanto prima: “Perché le domande veramente serie sono solo quelle che possono essere formulate da un bambino. Solo le domande più ingenue sono veramente serie. Sono domande per le quali non esiste risposta. Una domanda per la quale non esiste risposta è una barriera oltre la quale non è possibile andare. In altri termini: sono proprio le domande per le quali non esiste risposta che segnano i limiti delle possibilità umane e tracciano i confini dell’esistenza umana”.

L'insostenibile leggerezza dell'essere

Incipit:

L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla.

 

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Una morte dolcissima

“Inutile pretendere d’integrare la morte alla vita e di comportarsi in modo razionale di fronte a una cosa che non è razionale: ognuno si tragga d’impiccio come può, nella confusione dei propri sentimenti”. Simone de Beauvoir scrive “Una morte dolcissima” come diario degli ultimi giorni della madre, malata di cancro, accudita in ospedale, senza far trapelare che il male sta per portarla via: “Mamma ci credeva accanto a sé. Ma noi già stavamo dall’altra parte della sua storia”. Nel libro, traspare il dolore della madre, la sofferenza della figlia, le riflessioni sulla fragilità della vita, gli inevitabili sensi di colpa. La separazione da colei che ci ha messo al mondo è il taglio definitivo del cordone ombelicale, fisico, mentale, emotivo, la perdita di status di figlio, la scoperta di una profonda solitudine. Cambia tutto: si trasformano le città, cadono le maschere, svanisce la magia, le parole restano nude: “negli ultimi istanti di un moribondo si può racchiudere l’infinito”. Il corpo malato, il corpo di un morente, è terra straniera, di cui non possiamo intendere il linguaggio. Chi resta scopre suo malgrado di esserci ancora, per una sovrabbondanza di vita, che ha ricevuto, che ci è stata donata e che non riesce a salvare chi di questo dono è l’artefice.

Una morte dolcissima

Incipit:

Il 24 ottobre 1963, un giovedì, alle quattro del pomeriggio, mi trovavo a Roma, nella mia camera dell’albergo Minerva; dovevo tornare a casa l’indomani in aereo e stavo riordinando alcune carte quando squillò il telefono. Mi chiamava Bost da Parigi: – Vostra madre ha avuto un incidente, – mi disse.

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Trilogia della città di K.

“Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita”. Con “Trilogia della città di K.”, Ágota Kristóf ha voluto scrivere una formidabile favola nera, tre romanzi che intrecciano le vite di due gemelli con un’anima sola, in un paese dell’est, durante la Seconda guerra mondiale. “A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua […] Diminuire, attenuare, l’ho detto, sì, ma non svanire”: il libro è un viaggio in un abisso in grado di attrarre per la sua oscurità, “diceva che il luogo ideale per dormire era la tomba di una persona amata”. Il romanzo, composto da tre libri conclusi nel 1991 e da allora raggruppati, è scritto in maniera asciutta e trasuda di disincanto. Uno dei miei preferiti.

Trilogia della città di K

Incipit:

Arriviamo dalla Grande città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.

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Il nome della rosa

“Tale è la forza del vero che, come il bene, è diffusivo di sé”. Che cos’è il male? Ci si pone questa domanda mentre si legge “Il nome della rosa”, scritto da Umberto Eco nel 1980. “Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”, oppure “l’Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente. Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro”.

In un’abbazia del 1327 alcuni monaci muoiono in modo misterioso. Il libro è un viaggio in un tempo lontano, nel freddo di novembre, tra le calde mura di un monastero che accoglie, custodisce e nasconde. Ho letto Il nome della rosa quando avevo 15-16 anni. Mi era stato dato da leggere e l’avevo cominciato come un compito. Dopo le prime pagine, però, mi son sentito catapultato in quel l’abbazia, in quell’inverno, tra quei frati e i quei libri. Poche volte mi è capitato di avere dei ricordi così vividi legati a un romanzo. Con Il nome della rosa mi sono reso conto di quanto amassi lo studio di per sé, di quanto fossi attratto dalla conoscenza, dalla letteratura e, anche se ancora non sapevo bene cosa fossero, dalla filosofia e dalla teologia. Nella mia mente si era anche installata l’idea che sarei potuto diventare un monaco. Possibilmente domenicano.

Il nome della rosa

Incipit:

Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole.

Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’abbazia.

Citazione:

Sì, c’è una lussuria del dolore, come c’è una lussuria dell’adorazione e persino una lussuria dell’umiltà. Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d’adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? E fu per questo che rinunciai a quella attività (di inquisitore). Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi.

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Mrs Dalloway

Il giorno in una vita e tutta la vita in un giorno, questa potrebbe essere la sintesi di Mrs Dalloway di Virginia Woolf, pubblicato nel 1925. Il libro è il racconto di una giornata della vita di Clarissa Dalloway, donna apparentemente superficiale, che organizza un ricevimento per il marito. Eppure in questo giorno ci viene mostrata l’intera esistenza di Clarissa, delle persone a lei care, degli uomini e delle donne che incrociano il suo cammino. “Quando si è felici, aveva detto a Elisabeth, si hanno delle riserve a cui attingere, mentre lei era come una ruota senza gomma (le piacevano quelle metafore) sobbalzava a ogni scossa”: veniamo trasportati pagina dopo pagina nei pensieri di Clarissa, nel dolore di Lucrezia, nella follia di Septimus, e di un amore che poteva essere e che non è mai stato: “siamo tutti in carcere”, dice un personaggio. “Anche l’amore distrugge. Tutto ciò che era bello, tutto ciò che era vero, finiva”.

Letto e odiato al liceo, l’ho riscoperto dopo anni ed è diventato uno dei miei romanzi preferiti.

Mrs Dalloway

Incipit:

La signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andata a comprarli lei. Poiché Lucy aveva già il suo bel da fare. Bisognava tirar giù le porte dai cardini: venivano gli operai di Rumpelmayer. Eppoi, pensò Clarissa Dalloway, che mattinata! … limpida, come per farne dono ai bimbi su una spiaggia. Che delizia! Che tuffo! Sempre, infatti, le aveva fatto questo stesso effetto, a quei tempi, allorquando, spalancata la porta finestra, con un lieve cigolio dei cardini, che ancora le pareva di udire, lei si tuffava nell’aria aperta, a Bourton.

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Se una notte d’inverno un viaggiatore

“Come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia? Tutto è sempre cominciato già prima. La prima riga della prima pagina di ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori del libro. Oppure la vera storia è quella che comincia dieci pagine più avanti e tutto ciò che precede è solo un prologo”: la citazione parla di un romanzo, ma ricorda la nostra vita e verrebbe da chiederci: quando comincia la nostra storia? Il libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino è uscito per la prima volta nel 1979 ed è un romanzo sul leggere romanzi, fatto di inizi che non trovano mai una fine. Gli inizi non sono mai, però una nuova partenza, ma sono un procedere per accumulazione: “ogni momento della mia vita porta con sé un’accumulazione di fatti nuovi e ognuno di questi fatti nuovi porta con sé le sue conseguenze, cosicché più cerco di tornare al momento zero da cui sono partito più me ne allontano”. Questo di Calvino è uno di quei libri che o si odia o si ama. Io, ovviamente, sono uno di quelli che ne consiglia la lettura.

Se una notte d'inverno un viaggiatore

Incipit:

Stai per cominciare a leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo, speriamo che ti lascino in pace.

 

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Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop

“Finché una persona non viene messa alla prova, non si può mai sapere che cos’ha in cuore” e le prove capitano, nella vita. “Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop” è un romanzo di Fannie Flagg del 1987, tenero, commovente e ricco di speranza. E’ un libro a cui ho voluto bene in modo particolare, perché mi ha sempre fatto credere che a un caffè di una stazione, dove fanno dei piatti semplici, si possa imparare ad andare avanti (“Un cuore si può spezzare, ma continua lo stesso a battere”) o, perché no?, anche essere felici.

Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop

Incipit:

IL GIORNALE DELLA SIGNORA WEEMS
(BOLLETTINO SETTIMANALE DI WHISTLE STOP, ALABAMA)

12 giugno 1929

Apre un nuovo caffè

Il caffè di Whistle Stop ha aperto la settimana scorsa, proprio di fianco a me alla posta, e le proprietarie, Idgie Threadgoode e Ruth Jamison, affermano che fin dal primo giorno gli affari sono andati a gonfie vele. Idgie dice che la gente non deve aver paura di restare avvelenata, perche non è lei che cucina ma due donne di colore, Sipsey e Onzell, mentre al barbecue c’è Big George, il marito di Onzell.
Se qualcuno non c’è ancora stato, Idgie dice che la colazione viene servita dalle 5.30 alle 7.30 e il menù prevede uova, farina di granturco, biscotti, pancetta affumicata, salsiccia, prosciutto, sugo di carne, il tutto per 25 centesimi.

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Diario di un parroco di campagna

“Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi”, dimenticare se stessi, smettere di detestarsi. “Diario di un parroco di campagna” è stato pubblicato da Goerges Bernanos nel 1945 ed è un libro stupendo sulla grandezza e la miseria umana, sulla fede, che non è moralismo, sulla grazia che è veramente un dono: “Non fosse per la vigilante pietà di Dio, mi sembra che al primo prender coscienza di sé stesso l’uomo ricadrebbe in polvere”. Il parroco di campagna si trova di fronte a persone inaridite dal dolore, dalla povertà, dall’arroganza. Si può ancora credere a un dio quando la gente soffre per la fame? (“Un ventre di un miserabile ha più bisogno d’illusioni che di pane”) Possiamo amare dio, quando un figlio muore? “Signora, se il nostro Dio fosse il dio dei pagani o dei filosofi (è la stessa cosa) potrebbe anche rifugiarsi nel più alto dei cieli, la nostra miseria lo farebbe precipitare. Potrebbe mostrargli i pugni, sputargli in faccia, flagellarlo e da ultimo inchiodarlo su una croce, che importa? Tutto è già stato fatto”. L’amore è il vero protagonista di questo libro: “Nulla può separarci, in questo mondo o nell’altro, da ciò che abbiamo amato più di noi stessi, più della vita, più della salvezza” ed è per questo che “l’inferno è non amare più”. Un testo meraviglioso e formativo, scorrevole e poetico: “tutto è grazia”.

Diario di un parroco di campagna

Incipit:

La mia parrocchia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte. Le parrocchie d’oggi, naturalmente. Lo dicevo ieri al curato di Norenfontes: “Il bene e il male debbono equilibrarsi; sennonché, il centro di gravità è collocato in basso, molto in basso. O, se lo preferite, si sovrappongono l’uno all’altro senza mescolarsi, come due liquidi di diversa densità”. Il curato m’ha riso in faccia. È un buon prete, affabilissimo, molto paterno, che all’arcivescovado passa addirittura per un ingegno forte, un po’ pericoloso.

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Heimat

“Heimat” è il luogo natìo, la terra in cui affondiamo le nostre radici, il posto in cui ci siamo sentiti a casa. “Heimat”, in tedesco, si distingue da “Vaterland”, la patria, terra dei padri, appunto. “La Heimat si trova solo nel ricordo, che comincia a esistere solo quando l’hai persa” si dice nel libro. “Heimat” di Nora Krug, uscito per Einaudi nel 2019, è una graphic novel con fotografie, lettere, cartoline, documenti che ricreano un album di famiglia, quello dell’autrice, alla ricerca del proprio passato. Questo passato non ci viene narrato come una terra straniera da esplorare, ma come un luogo rimosso da riportare alla luce. Il libro aiuta veramente a comprendere l’elaborazione di una storia familiare che affonda le sue radici nel tempo maledetto della Germania nazista: il dolore, la paura, la nostalgia, la tenerezza sono sentimenti che emergono via via che i ricordi vengono ricostruiti. Un’elaborazione che ha tanto più valore per noi italiani, che questo percorso ancora non siamo stati in grado di farlo.

Heimat - Nora Krug

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Fahrenheit 451

“Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch’è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza”. Ray Bradbury racconta, in “Fahrenheit 451”, una realtà distopica in cui la lettura è proibita e i libri vengono bruciati: “Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive”. Eppure, anche in tale mondo esiste una resistenza che si fa custode delle parole che altrimenti andrebbero perdute. Il libro è estremamente scorrevole e ben narrato.

Fahrenheit 451

Incipit:

Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale veder le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non sai che direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia.

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