Quel che affidiamo al vento

“In fondo era quanto ci si augurava per tutti, che un posto dove curare il dolore e rimarginarsi la vita ognuno se lo fabbricasse da sé, in un luogo che ognuno individuava diverso”. Esiste un telefono in Giappone, nel giardino di Bell Gardia sulla Montagna della Balena, dove si possono affidare al vento le parole che vorremmo far giungere alle persone che amiamo e che non possono più sentirci. “Credo che siamo così anche noi che andiamo su quella collina: cerchiamo di riavere indietro la nostra ombra”. Cosa fare quando il mare ti porta via un pezzo di vita? Quando la morte di una persona cara ti rende un sopravvissuto? Quando la nostra storia naufraga e cerchiamo di rimanere aggrappati a qualcosa che ci permetta di non essere trascinati via? “Anche se passa il tempo, il ricordo di chi abbiamo amato non invecchia. Invecchiamo solo noi”.
Il libro di Laura Imai Messina, uscito nel 2020, è un viaggio nell’elaborazione del dolore e del lutto, ma è anche una delicata storia d’amore, che rimane. A noi che restiamo irrimediabilmente qui, ad affidare al vento le storie, per non dimenticare, per non essere dimenticati.

Quel che affidiamo al vento

Incipit:

Un turbine d’aria schiaffeggiò le piante del vasto giardino scosceso di Bell Gardia. . Per difesa, la donna alzò istintivamente un gomito davanti alla faccia, incurvò la schiena. Subito però tornò cosciente, diritta. Era giunta prima dell’alba, aveva visto salire la luce ma il sole rimanere nascosto. Aveva scaricato i grossi sacchi dalla macchina: cinquanta metri di plastica del massimo spessore arrotolati a tubo, cilindri di nastro isolante, dieci scatole di chiodi ad anello da agganciare alla terra e un martello con l’impugnatura da donna. Da Conan, l’enorme supermercato di ferramenta, un commesso le aveva chiesto di mostrargli per favore la mano; era per misurarne la presa ma lei era trasalita.

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Dracula

“Benvenuto nella mia casa! Entrate libero e tranquillo. Andatevene poi sano e salvo, e lasciate un po’ della felicità che arrecate!” è una delle citazioni più ricordate e più celebri del libro. “Dracula” è un affascinante romanzo epistolare scritto dall’irlandese Bram Stoker nel 1897. Il libro si ispira alla figura di Vlad III, principe della Valacchia. Dracula è il non vivente, nosferatu, vampiro, diventato maledetto per aver rinnegato dio, a causa un amore finito troppo presto, condannato a non morire mai, costretto a non vedere mai più il sole. L’eterno dolore di un non più uomo che viene privato di ogni consolazione: “Nessuno può sapere, se non dopo una notte di patimenti, quanto dolce e prezioso al cuore e agli occhi possa essere il mattino” . Il punto di vista è quello dei personaggi che scrivono le loro lettere da cui si comprende che il nosferatu si è trasferito in Inghilterra: “Il mondo sembra pieno di brave persone, sebbene non vi manchino i mostri”. Il libro è scorrevole e coinvolgente, e vita e morte si rincorrono come il giorno la notte: “Perché la vita in fondo cos’è? Solo l’attesa di qualcosa d’altro, no? E la morte l’unica cosa che possiamo essere sicuri che viene”. Al di là delle atmosfere cupe, dei brividi in alcuni momenti, il romanzo è alla fine il racconto di un amore che trascende la vita e di una disperazione che non ha mai fine.

Dracula

Incipit:

3 maggio, Bistrita. Lasciata Monaco alle 20,35 del 1° maggio, giunto a Vienna il mattino dopo presto: saremmo dovuti arrivare alle 6,46, ma il treno aveva un’ora di ritardo. Stando al poco che ho potuto vederne dal treno e percorrendone brevemente le strade di Budapest mi sembra una bellissima città. Non ho osato allontanarmi troppo dalla stazione, poiché, giunti in ritardo, saremmo però ripartiti quanto più possibile in orario. Ne ho ricavato l’impressione che, abbandonato l’Occidente, stessimo entrando nell’Oriente, e infatti anche il più occidentale degli splendidi porti sul Danubio, che qui è maestosamente ampio e profondo, ci richiamava alle tradizioni della dominazione turca.

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Il racconto dell’ancella

Raccontare un mondo possibile, questo possono le grandi menti. Narrare le ferite, creare degli squarci nella nostra quotidianità. Margaret Atwood ne “Il racconto dell’ancella” ci proietta in un futuro distopico terribile proprio perché possibile. Una società in cui le donne sono divise in base alla loro capacità genitoriale in mogli, zie, marte e ancelle. Queste ultime hanno il compito di generare figli per altri, attraverso uno stupro sistematico. “La normalità, diceva zia Lydia, significa ciò a cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrare normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”. Un racconto in cui nessun personaggio è veramente buono e nessuno veramente malvagio, ma tutti riescono ad essere vittime e carnefici, come in tutti i sistemi totalitari. “Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo”. L’oppressione passa attraverso il linguaggio della narrazione, le parole cambiano di significato, alcune diventano tabù. Nel buio più totale, però, non muore la speranza, incisa nella scritta “Nolite te bastardes carborundorum”, che in latino maccheronico è un invito a resistere: “non lasciare che i bastardi ti annientino”.

Il racconto dell'ancella

Incipit:

Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L’impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt’attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l’aleggiare di un’immagine, l’odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde.

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La casa degli spiriti

“Cosí come quando si viene al mondo, morendo abbiamo paura dell’ignoto. Ma la paura è qualcosa d’interiore che non ha nulla a che vedere con la realtà”. La chiamano realismo magico quella narrazione in cui elementi fantastici intervengono nella storia, senza che ciò stravolga il contesto realistico: ” Clara abitava un universo inventato da lei, protetta dalle avversità della vita, dove la verità prosaica delle cose materiali si confondeva con la verità tumultuosa dei sogni, nei quali non sempre funzionavano le leggi della fisica e della logica”. Il romanzo di Isabel Allende, uscito nel 1982, è ambientato in Cile in un periodo che arriva fino al colpo di stato del 1973. Tuttavia, la politica fa solo da sfondo a una storia famigliare e personale. Leggendo il libro si arriva a credere che gli spiriti abitino un mondo parallelo, il dietro le quinte di un palcoscenico, che è la vita di persone che possono assomigliarci. Il romanzo, bello e scorrevole, è un piccolo tuffo in una solitudine da cui è difficile fuggire: “lei non credeva che il mondo fosse una Valle di lacrime, ma al contrario una burla di Dio, sicché era stupido prenderlo sul serio, se Lui stesso non lo faceva”.

La casa degli spiriti

Incipit:

Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore.

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Il correttore

«Lavoro finché mi duole il cervello. Per arrivare all’esattezza perfetta. Per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo. L’esattezza. La santità dell’esattezza. L’utopia significa semplicemente l’esattezza! […] significa togliere gli errata dalla storia. Dall’uomo. Correggere bozze». “Il correttore” di George Steiner, scritto nel 1992, racconta di un uomo che nella vita corregge gli errori dai testi non per protervia, ma per vocazione: «È proprio per quelli che vivono in qualche sperduto buco di campagna, nei bassifondi, che dovremmo produrre il lavoro migliore. Perché qualche scintilla di perfezione penetri nelle loro vite sconsolate». Il protagonista del romanzo breve si impegna per donare dei frammenti di perfezione, come squarci da cui intravedere un mondo migliore, come fossero barlumi di speranza. «Sa cosa insegna la Cabala? Che tutto il male, tutte le sofferenze dell’umanità provengono dallo sbaglio di uno scrivano pigro o incompetente che sentì male, o trascrisse erroneamente, un’unica lettera, un’unica e sola lettera nel Testo Sacro. Ogni orrore successivo ci è pervenuto tramite e a causa di quell’unico erratum». Per me questo libercolo è stato illuminante, condividendone la fede di fondo: la realtà si migliora se ci prendiamo cura degli altri e prenderci cura degli altri vuol dire fare attenzione a ciò che doniamo loro, fossero anche solo parole.

Il correttore - George Steiner

Incipit:

Adesso il bruciore sembrava pizzicarlo dietro agli occhi.
Da oltre trent’anni era un maestro nel suo mestiere. Il più veloce, il più preciso tra i correttori di bozze di tutta la città, forse della provincia. Al lavoro ogni notte, per tutta la notte. Affinché i protocolli giudiziari, gli atti di compravendita, gli avvisi delle finanze pubbliche, i contratti, le quotazioni in borsa potessero uscire l’indomani, senza pecche, precisi fino all’ultima cifra dei decimali. Nelle arti dello scrupolo, non aveva rivali. Gli affidavano il controllo dei testi stampati nel corpo più piccolo, la giustificazione delle colonne di cifre più lunghe, gli sterminati elenchi di oggetti smarriti messi all’asta dalla posta o dall’azienda dei trasporti pubblici. Le sue correzioni degli elenchi telefonici, delle liste elettorali e dei censimenti, dei verbali del consiglio municipale, erano leggendarie. Tipografie, pubblicazioni ufficiali e tribunali si contendevano la sua collaborazione.
Ma adesso la sensazione di bruciore, proprio vicino agli occhi, si faceva più acuta.

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La ballata del caffè triste

Un vecchio emporio si trasforma in un caffè, quando una donna dal viso opaco e dai modi spigolosi si innamora di un nano gobbo. Il paese squallido e vuoto, dove “l’anima ti si corrompe nella noia”, si riempie di vita e di personaggi che non vorremmo mai incontrare. Questo racconto lungo di Carson McCullers è un breve viaggio in una dimensione in cui le favole non hanno il lieto fine. Il testo è stato pubblicato nel ’43, negli Stati Uniti in guerra e che cercavano di riprendersi dalla Grande depressione. Eppure sembra raccontare di un tempo dell’anima, in cui dalla finestra che volge su una strada deserta si cerca di intravedere un barlume di felicità. Ma “La ballata del caffè triste” è il breve canto di un’utopia irrealizzata e quando la musica finisce, l’incanto si interrompe. Dopo essere stato fuori commercio a lungo, il libro è stato ristampato nel 2013 e merita una lettura.

La ballata del caffè triste

Incipit:

Il paese in sé è squallido: non c’è nulla tranne la filanda del cotone, le case di due stanze dove vivono gli operai, pochi alberi di pesco, una chiesa con due finestre colorate e una misera via principale, lunga appena un centinaio di metri. Il sabato vengono gli affittuari delle fattorie vicine per una giornata di chiacchiere e commerci. Altrimenti il paese è solitario, triste, come un luogo remoto ed estraniato da tutti gli altri nel mondo.

Citazione:

Prima di tutto l’amore è un’esperienza comune tra due persone; ma l’essere un’esperienza comune non significa che sia simile. C’è chi ama e chi si lascia amare: due persone che vengono da regioni diverse. Spesso l’amato rappresenta solo lo stimolo per tutto l’amore represso che fino ad oggi, da tanto tempo ha atteso l’appello. Ed ogni amante in certo modo lo sa. In cuor suo sente che il proprio amore è solitario. Arriva così a conoscere una uova, singolare solitudine ed è questa consapevolezza a farlo soffrire. Per lui ormai c’è una sola cosa da fare: albergare in sé il proprio amore come meglio può; creargli un intero, nuovo mondo interiore, un mondo strano ed intenso, completo in sé. Si aggiunga qui che l’amante di cui parliamo non è necessario sia un giovanotto il quale fa risparmi per l’anello nuziale; potrà essere uomo, donna, bambino, qualsiasi creatura umana sulla terra. Anche l’amato può avere qualsiasi figura. La persona più impensata sarà stimolo all’amore. Si può essere un tentennante bisavolo e amare ancora una ragazza sconosciuta, vista per le strade di Cheehaw un pomeriggio vent’anni prima. Il predicatore amerà una donna caduta. Si potrà amare una creatura falsa e grossolana, votata ai vizi peggiori e chi l’ama se ne accorgerà benissimo, come chiunque altro, senza che ciò alteri di un atomo l’evoluzione del suo amore. La persona più mediocre sarà oggetto di un amore furibondo, eccezionale e splendido come i velenosi gigli di campo. L’uomo buono susciterà una passione violenta e insieme degradante, ed un pazzo frenetico farà nascere nell’animo un semplice e tenero idillio. Il valore dunque e la qualità dell’amore vengono determinati unicamente da colui che ama. Per questo motivo si preferisce, nella maggioranza, amare più che essere amati. Quasi tutti vogliono amare. E la cruda verità è che per molti la condizione dell’essere amati riesce intollerabile. L’amato teme ed odia colui che lo ama, e a ragione. Perché l’amante cerca sempre di mettere a nudo l’oggetto del proprio amore; e richiede ogni possibile genere di rapporto con l’amato, anche se l’esperienza gli porterà solo dolore.

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L’ebreo che ride

Il riso ha una dimensione salvifica: salva dall’impudenza di prendersi troppo sul serio, disinnesca le critiche, anche le più feroci, libera dalle paure e dalla tristezza, fosse solo per un attimo, e dà respiro allo spirito affranto. Un vecchio adagio yddish dice “l’uomo progetta e Dio ride”, perché ridere ha anche una dimensione divina. Bene lo racconta Moni Ovadia nel suo “L’ebreo che ride”, un libro che nasce da ciclo di lezioni sull’umorismo ebraico che l’autore ha tenuto presso l’Università di Padova. Umorismo ed ebraismo sono connessi fin dalle origini. Infatti, quando l’Arcangelo comunica ad Abramo e Sarah che avranno un figlio sono entrambi molto anziani (cento anni lui, novanta lei) e all’annuncio loro scoppiano in una risata. Il figlio, da cui appunto origina il popolo ebraico, viene chiamato “Isacco”, che in ebraico vuol dire “Colui che rise”. Nel volume di Moni Ovadia rivive l’immaginario del villaggio ebraico dell’Europa dell’est (lo shtetl), con i suoi stereotipi, le sue paure, le sue follie. Un libro scorrevole, ricco e illuminante, come la cultura a cui attinge.

L'ebreo che ride

Incipit:

L’idea del divino che viene attribuita agli ebrei dall’esterno è ben riassunta nella grevità della definizione: “Dio vetero-testamentario”.
Questa formula richiama l’immagine di un Dio decrepito, terribile, vendicativo e geloso. Contumelie e riprovazioni iterate con maniacale e sadica insistenza sono state sopportate da generazioni di ebrei accusati di crudeltà per aver concepito un Dio così implacabile. Alcuni ebrei messi alle corde hanno finito per riconoscere la loro grave colpa.
Un lord inglese, al suo ricevimento annuale, ha invitato anche il Vescovo anglicano ed il Rabbino che, con malizioso intento, sono stati sistemati vicini a tavola.
Il Vescovo non resiste alla tentazione di punzecchiare il rabbino e gli dice: «Rabbino carissimo, suvvia! Lo riconosca! Il vostro Dio è così tremendo, tetragono, minaccioso, vendicativo. Il nostro invece è tutto bontà, perdono, indulgenza, sacrificio…»
«Sono totalmente d’accordo con lei, Vescovo», riconosce candidamente il Rabbino, «il vostro Dio ha preso per sé tutte le migliori qualità e non ne ha lasciata alcuna ai suoi devoti».

Citazione:

Shloimele e Duvidl, due studenti di yeshivà, sono accaniti fumatori, sanno che questo loro vizio è guardato con sospetto, ma la voglia di fumare non li lascia mai. Decidono allora di chiedere al rabbino come comportarsi al riguardo. Va, a nome di tutti e due, Shloimele: “Rabbino, rabbino”. “Dimmi Shloimele caro, cosa c’e’?”. “Rabbino io ti volevo domandare… quando si studia il Toyre, si può fumare?”. “Cosa ti viene in mente, razza di vizioso che sei? Quando si studia, si studia e basta!”. Con la coda fra le gambe, Shloimele torna da Duvidl e gli racconta della lavata di capo che gli ha fatto il rabbino. “Sai quale è il problema con te? – gli dice Duvidl – Tu non sai fare le domande. Lascia, vado io. “Rabbino, rabbino, io ti vorrei fare una domanda”. “Dimmi, Duvidl caro, sono qui per questo”. “Rabbino… quando si fuma, si può studiare il Toyre?”. “Certo, Duvidl caro! Sempre è un buon momento per studiare il Toyre!” esclama il rabbino entusiasta.

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Lacci

La quarta di copertina recita: “Che cosa lasciamo, quando lasciamo qualcuno? Una casa, una famiglia, il passato, un’idea di futuro, la nostra peggiore fotografia impressa a fuoco negli occhi di chi abbiamo amato. Passiamo la vita a spaccare vasi e incollare cocci illudendoci di essere nuovi di zecca”.
“Lacci” di Domenico Starnone, pubblicato nel 2014, racconta tutto questo. Che cosa sono i lacci? Legano, tengono insieme o sono di inciampo? I lacci come metafora dei legami familiari: “Nella case c’è un ordine apparente e un disordine reale”. I lacci come corde che ci ancorano al passato: “Rimpiangere il passato è stupido, come è stupido correre dietro a sempre nuovi inizi”. I lacci come verità che ci costringono a stare con i piedi per terra: “Continuerai così per sempre, non sarai mai quello che vuoi ma quello che capita”. Il libro è bello e coinvolgente e dimostra come Starnone sia uno degli autori italiani più bravi degli ultimi anni.

Lacci - Domenico Starnone

Incipit:

Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata, doverti ritirare a casa a ora di cena, dormire con me e non con chi ti pare, ti fa sentire cretino.

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Tsugumi

“Giornate di una felicità intensa non capitano spesso nella vita. Ed inseguendo quel vivido miraggio che le persone riescono a tirare avanti e a invecchiare”, di questo romanzo è così ne parla l’autrice Banana Yoshimoto. Tsugumi, scritto nel 1989, è un romanzo breve, o racconto lungo, di una ragazza, di un villaggio, di un’amicizia e degli addii che sempre si accompagnano ai luoghi felici. Come altri romanzi di Yoshimoto, nelle parole delicate e nelle immagini soffuse si percepisce la crudezza della realtà: “Gli esseri umani, ovunque si trovino, quando vedono in lontananza, avvolto nella foschia, il porto verso cui sono diretti, capiscono cosa significhi essere uno straniero solo”.

Tsugumi - Banana Yoshimoto

Incipit:

Senza dubbio Tsugumi era una ragazza impossibile.
Ho lasciato il mio tranquillo paesino, in cui si vive di pesca e di turismo, e sono venuta a Tokyo per frequentare l’università. Anche le giornate che trascorro qui sono molto divertenti.
Mi chiamo Shirakawa Maria. Maria, proprio come la Madonna. Però non mi sento affatto una santa. Ma nonostante questo, chissà perché, quando i miei nuovi amici parlano di me, non ce n’è uno che non dica che sono “generosa, o “serena”.

 

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Chiedi alla polvere

“Ricordati di me, / sussurra la polvere” recita la poesia di Peter Huchel. La polvere custodisce ciò che è stato, così era nelle intenzioni di Huchel. Ma la polvere è anche un terra da cui non nasce nulla, come ci mostra Jonn Fante in questo romanzo. Polvere negli occhi, polvere nella gola. “Chiedi alla polvere” (Ask the dust) e forse troverai le risposte che stai cercando. Il romanzo, pubblicato nel 1939 e ambientato nel periodo della Grande depressione, è in realtà fuori dal tempo ma pienamente localizzato nello spazio: la terra arida della California, che rappresenta un po’ il deserto delle aspettative irrealizzate.

Chiedi alla polvere - John Fante

Incipit:

Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.

 

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