La banalità del male
Di particolare rilevanza è inoltre il libro del 1963 intitolato La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, scritto in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann.
Hannah Arendt prende parte, come inviata speciale del New Yorker, al processo tenutosi a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann. La cronaca del processo e le relative analisi della filosofa confluiscono in questo testo.
Secondo la tesi sostenuta nell’opera, le ragioni profonde dei crimini nazisti dipendono non tanto dalla cattiveria o dalla mostruosità di alcuni carnefici, ma dall’assenza di pensiero in uomini del tutto normali (“banali”) nella vita familiare, che, però, se inseriti in una macchina infernale quale l’organizzazione nazista, sono capaci delle più disumane atrocità.
Adolf Eichmann
Otto Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf e di Maria Schefferling, catturato in un sobborgo di Buenos Aires la sera dell’11 maggio 1960, trasportato in Israele nove giorni dopo in aereo e portato dinnanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme l’11 aprile 1961, doveva rispondere di quindici imputazioni, avendo commesso, in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista, in particolare durante la seconda guerra mondiale.
Precedentemente, Eichmann era stato catturato dagli americani, era stato imprigionato ma gli americani non erano riusciti a scoprirne l’identità. Egli ha fatto di tutto per non essere scoperto, si è finto anche morto, e così è sfuggito al processo di Norimberga.
Trova una via di fuga e comincia la sua odissea. Si affida all’Odessa (una rete di criminali nazisti fuggitivi che aveva come obiettivo il consentire la fuga dei gerarchi nazisti principalmente in America Latina) e finisce a Buenos Aires. Nel 1952 comincia a lasciare tracce di sé scrivendo alla moglie e poi risposandola. Nel 1955 rilascia un’intervista con il suo proprio nome che viene pubblicata dai maggiori periodici tedeschi.
Eichmann aveva la mentalità del gregario e non sapeva vivere senza un capo. Viene inghiottito dal nazismo senza sapere nulla del partito, non sapeva nulla del razzismo. Eichmann è stato un grande organizzatore dell’olocausto. Ammirava il libro di Herzlr sul sionismo e trovava geniale l’idea di spostare gli ebrei fuori dall’Europa. Eichmann non si sentiva un antisemita, anzi, credeva di salvare gli ebrei e di essere un salvatore. Era considerato un esperto di questioni ebraiche.
Eichmann non ha una partecipazione diretta al massacro, che rimane, per lui, una questione di numeri: egli deve solo organizzare. Eichmann traduceva gli ordini dei superiori di una perfetta macchina organizzativa; era una “mera” traduzione nella macchina organizzativa, quasi al di là del bene e del male. Eichmann non deve “abituarsi” agli omicidi (come dirà Brauning), ma rimane nel suo ufficio, è un anello di mezzo tra i mandatari e gli esecutori che sono realmente a contatto con gli omicidi. Il fatto di essere “anello di mezzo” lo caratterizza fino in fondo e proprio per questo è una figura esemplare della sua medietà. Eichmann non è mai in sintonia né con i superiori né con le persone sotto di lui, questo prova come egli si sentisse estraneo da questi. Eichmann fugge sempre con orrore quando ha visto lo sterminio. Aveva disgusto e disprezzo per gli esecutori della macchina che aveva messo in moto.
La cosa drammatica di Eichmann è che crede a quello che dice. Quello che emerge al processo è la sua innocenza e inconsapevolezza. Scrive Arendt:
«Per tutto il processo Eichmann cercò di spiegare, quasi sempre senza successo, quest’altro punto grazie al quale non si sentiva «colpevole nel senso dell’atto d’accusa». Secondo l’atto d’accusa egli aveva agito non solo di proposito, ma anche per bassi motivi e ben sapendo che le sue azioni erano criminose. Ma quanto ai bassi motivi, Eichmann era convintissimo di non essere un innerer Schweinehund, cioè di non essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e cronometrica precisione. Queste affermazioni lasciavano certo sbigottiti. Ma una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato “normale”, e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura: «Più normale di quello che sono io dopo che l’ho visitato» […]. Dietro la commedia degli esperti della psiche c’era il fatto che egli non era evidentemente affetto da infermità mentale. […]. Peggio ancora, non si poteva neppure dire che fosse animato da un folle odio per gli ebrei, da un fanatico antisemitismo, o che un indottrinamento di qualsiasi tipo avesse provocato in lui una deformazione mentale. «Personalmente» egli non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei; anzi, aveva sempre avuto molte «ragioni private» per non odiarli. […]
Ahimé, nessuno gli credette. Il Pubblico ministero non gli credette perché la cosa non lo riguardava; il difensore non gli dette peso perché evidentemente non si curava dei problemi di coscienza; e i giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e forse anche troppo compresi dei principi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, «normale», non svanita né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un «bugiardo» – e così trascurarono il più importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal presupposto che l’imputato, come tutte le persone «normali», avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in effetti Eichmann era normale nel senso che «non era una eccezione tra i tedeschi della Germania nazista», ma sotto il Terzo Reich soltanto le «eccezioni» potevano comportarsi in maniera «normale». Questa semplice verità pose i giudici di fronte a un dilemma insolubile, e a cui tuttavia non ci si poteva sottrarre»
Dopo le vicende del processo a Eichmann, Arendt muta radicalmente la propria prospettiva circa il male: quest’ultimo cessa di essere inteso come “radicale” e viene ora concepito come “banale“, ossia compiuto senza consapevolezza (talvolta addirittura a fin di bene) e per di più non da “mostri”, ma da gente come noi.
«Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele, e anche la sua diligenza non era, in sé, criminosa. Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo. (…) Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel periodo. (…) Quella lontananza dalla realtà, quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo». (H. Arendt, La banalità del male)
«Ho cambiato idea e non parlo più di “male radicale”. […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale» (H. Arendt, Lettera a Scholem, 1963)
Il vero “eroe” del libro La banalità del male è Anton Schmid che incarna il bene. Schmid è un tedesco ariano, sergente dell’esercito di guerra. Schmid permette a trecento ebrei del ghetto di Vilnius di fuggire verso la Bielorussia. Per questo viene arrestato e ucciso. Quest’uomo è l’unica figura di bene che la Arendt pone in contrapposizione agli altri tedeschi e a Peter Bhan in particolare. Peter Bhan è un medico che è contrario allo sterminio di cui è testimone; nel 1952 scrive un libro per raccontare la sua esperienza, il libro si chiama La bandiera invisibile. In quest’opera Bhan sostiene che compiere un’azione per salvare gli ebrei sarebbe stata “moralmente superiore” ma “completamente inutile” e non valida nemmeno come esempio morale. Hannah Arendt dice che non esiste un’azione morale superiore inutile.
Alcuni critici affermano che c’è un cambiamento della concezione del nazismo dal male assoluto a banalità del male. Nella concezione del pensiero precedente, secondo la Arendt, il male è dato da qualcosa di profondo. Ma in Eichmann il male non è così profondo come l’atto che produce: c’è una mancanza dell’elemento profondo, c’è una mancanza di pensiero, si accetta la norma e si vive in un universo di convenzioni. Nel mondo delle convenzioni, il pensiero ci mette a contatto col mondo reale. Eichmann è un uomo che viveva su un sistema di convenzioni. Se il male che può essere imputato ad Eichmann è un male banale, di questo male partecipa qualunque cittadino e personaggio della società del tempo; la differenza tra il tedesco medio ed Eichmann è che il tedesco medio è colpevole in potenza, Eichmann lo è in atto. La riflessione di fondo del libro si scontra con l’etica tradizionale che vedeva il male come mezzo per ottenere qualcosa di utile. Si apre un vuoto tra l’oggettività del male e l’oggettività di chi lo ha compiuto.
Ma è nell’opera La vita della mente che Hannah Arendt dà una più completa definizione del concetto di “banalità del male”:
«Lo stimolo mi venne assistendo al processo Eichmann a Gerusalemme. Nel resoconto che ne ho lasciato parlavo della “banalità del male”. Tale espressione non implicava allora nessuna tesi o dottrina, anche se mi rendevo conto, confusamente, che essa andava in direzione opposta a quanto asserito dalla nostra tradizione di pensiero – letteraria, teologica o filosofica – intorno al fenomeno del male. Il male, come ci è stato insegnato, è qualcosa di demoniaco; la sua incarnazione è Satana, <<una folgore caduta dal cielo>> (Luca, X, 18), ovvero Lucifero, l’angelo caduto il cui peccato è l’orgoglio, cioè quella superbia della quale solo i migliori sono capaci: essi non vogliono servire Dio, vogliono essere come Lui. Gli uomini malvagi, ci è stato detto, agiscono per invidia; può trattarsi del risentimento per essere riusciti male senza avere nessuna colpa (Riccardo III) o dell’invidia di Caino che uccise Abele perché <<il Signore tenne conto di Abele e della sua offerta: ma non tenne conto di Caino né della sua offerta>>. Essi possono altresì essere spinti dalla debolezza (Macbeth) o, al contrario, dall’odio potente che la malvagità nutre verso la bontà (<<odio il Moro: le mie ragioni partono dal cuore>>, dice Iago; l’odio di Claggart per l’innocenza <<barbara>> di Billy Budd, odio che Melville considera una <<depravazione secondo natura>>) oppure ancora dalla cupidigia, <<la radice di tutti i mali>>. Nondimeno, ciò che avevo sotto gli occhi a Gerusalemme, qualcosa di totalmente diverso, era pure innegabilmente un fatto. Restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause o di motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore – per lo meno l’attore tremendamente efficace che si trovava ora sul banco degli imputati – risultava quanto mai ordinario, mediocre tutt’altro che demoniaco o mostruoso. Nessun segno in lui di ferme convinzioni ideologiche o di specifiche motivazioni malvagie, e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento passato, era qualcosa di interamente negativo: non stupidità ma mancanza di pensiero. Sulla scena del tribunale israeliano e delle procedure carcerarie egli si comportava come aveva fatto nel regime nazista, ma di fronte a situazioni in cui tali procedure di routine non esistevano, eccolo improvvisamente smarrito, mentre il suo linguaggio dominato da clichès produceva in tribunale, come certo doveva essere avvenuto altre volte nella sua vita ufficiale, una sorta di macabra commedia. Clichès, frasi fatte, l’adesione a codici di espressione e di condotta convenzionali e standardizzati adempiono la funzione socialmente riconosciuta di proteggerci dalla realtà, cioè dalla pretesa che tutti gli eventi e tutti i fatti, in virtù della loro esistenza, avanzano all’attenzione del nostro pensiero. Saremmo rapidamente esausti se fossimo ogni volta sensibili a tali pretese: la sola differenza tra Eichmann e il resto dell’umanità è che, manifestamente, egli la ignorava del tutto.
Fu proprio questa assenza di pensiero – un’esperienza così consueta nella vita di tutti i giorni, quando si ha appena il tempo, o anche solo la voglia di fermarci a pensare – che destò il mio interesse. È possibile fare il male in mancanza non solo di <<moventi abietti>> (come li chiama la legge), ma di moventi tout court, di uno stimolo particolare dell’interesse o della volizione? Si può credere che la malvagità, comunque la si definisca, non sia una condizione necessaria per compiere il male?»
Il libro La banalità del male si conclude con un’escogitazione letteraria singolare: Arendt si trova di fronte a una sentenza e ad una motivazione della condanna su cui la Arendt non concorda. Arendt concorda sulla condanna ma non sulla motivazione e la riscrive. L’argomentazione di Arendt si fonda su due argomenti:
- Gioca sui concetti di possibilità e di attualità. La natura di Eichmann è la natura di tutti i tedeschi, ha quasi la stessa psicologia del popolo tedesco. La figura di Eichmann è un anello intermedio, non ha un grande contatto con gli strumenti di questa catena. Ciò che distingue Eichmann dalla totalità dei tedeschi è che i tedeschi rappresentano la potenzialità della colpa, mentre egli ne rappresenta l’attuazione.
- La ragione che rende giusta questa condanna a morte non sono le sue idee o il numero dei morti, ma il motivo di queste morti, e questo tocca l’ordine dell’umanità. L’ordine umano è dato dalle differenze, dalle pluralità dei popoli. L’ordine politico dell’umanità è la pluralità. Se questo è vero, cioè che alla base dell’ordine umano vi è la differenza e la pluralità degli esseri umani, il reato di cui si è macchiato Eichmann è un attentato all’ordine dell’umanità, perché si è arrogato il diritto di stabilire chi deve vivere o meno nell’umanità.
Uno degli errori fondamentali della sentenza di Gerusalemme, secondo Arendt, è l’aver portato il crimine di Eichmann ai vecchi modelli di giudizio. Il tribunale di Gerusalemme non ha dato una valida definizione di “crimini contro l’umanità”.
“Crimine contro l’umanità” è un reato nuovo e si pone il problema della retroattività della norma. Questa colpa veniva giustificata dal diritto di natura. Alla corte di Gerusalemme non si è compreso la figura del criminale che non è più una degenerazione di una società sana. Il criminale si insidia nella normalità, è un criminale che risiede nella nostra anima finché non si dà la parola al giudizio.