Critica della vittima è un pamphlet scritto da Daniele Giglioli, per i tipi della Nottetempo, nel 2014. Il libercolo è, appunto, una critica al paradigma vittimario. Bisogna innanzitutto sepcificare che questa critica non è un’indagine su chi siano queste vittime e se esse siano realmente tali, non è una mortificazione e neppure uno smascheramento delle presunte vittime. La critica della vittima non si rivolge al chi ma al cosa comporti essere vittime, quindi al potere che ne scaturisce.
«La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittima dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, gatantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto». (p. 9)
Se essere vittima o, ancora meglio, difensori delle vittime è fonte di potere, la critica della vittima appare oggi quanto mai necessaria. Infatti, dal momento che l’essere vittima ci mette nella condizione di poter agire al riparo da critiche (chi critica le vittime è tacciato di mancanza di empatia) allora apparire come vittima diventa l’aspirazione di chiunque punti al potere.
La vittima subisce e le sue azioni sono reazioni, pertanto chi agisce sembra impossibilitato ad agire diversamente. Quindi non è possibile neppure criticare l’agire della vittima. Ciò genera una profonda confusione tra libertà e irresponsabilità. Siamo liberi in quanto siamo responsabili di quel che facciamo, ma se non è possibile agire in modo diverso, allora non si può venire considerati responsabili per le nostre azioni.
La vittima è tale perché soffre, quindi non può smettere di soffrire, il suo dolore è perpetuo e viene costantemente sottolineato. Il dolore perpetuato, però, genera rabbia e tiene vivo il risentimento. La rabbia e il risentimento non si esauriscono perché a questo dolore non ci può essere soluzione.
Nel paradigma della vittima, la storia, intesa come processo condiviso, che è pubblicamente discutibile, diventa storia privata, quindi memoria che non può essere contestata, con la conseguenza di nutrire l’immaginario a discapito dell’analisi.
Lo status di vittima o difensore costituisce una forma di identità e il passato diventa l’unico strumento che orienta l’azione, contrastando ogni forma di traformazione. Da ciò ne consegue che l’identità che lo status conferisce è una identità così irrigidita che non ammette la contraddizione o il conflitto che dovrebbero essere processi naturali della società. Esige un’azione universale.
Tale spinta all’azione, nel momento stesso in cui fa appello alla vita negata, presenta quindi dei caratteri mortiferi:
«La proposopea della vittima rafforza i potenti e indebolisce i subalterni. Svuota l’agency. Perpetua il dolore. Coltiva il risentimento. Incorona l’immaginario. Alimenta identità rigide e spesso fittizie. Inchioda al passato e ipoteca il futuro. Scoraggia la trasformazione. Privatizza la storia. Confonde libertà e irresponsabilità. Inorgoglisce l’impotenza, o la ammanta di potenza usurpata. Se la intende con la morte mentre fa mostra di compiangere la vita. Copre il vuoto che soggiace a ogni etica universale. Rimuove e anzi rigetta il conflitto, grida scandalo alla contraddizione. Impedisce di cogliere la vera mancanza, che è un difetto di prassi, di politica, di azione comune». (p. 107)
La critica alla vittima non vuol dire non riconoscere che la vittima sia tale, che il suo dolore non sia vero dolore e che l’appello alla responsabilità non sia un appello giusto. Pur riconoscendo che la vittima è vittima, il dolore è dolore e la responsabilità resta responsabilità, è fondamentale vigilare verso i mistificatori che cercano di sfruttare la forza della condizione della vittima.
Smascherati i mistificatori, è importante, sottolinea Giglioli, restituire questa forza ai proprietari. La prima mossa in tale direzione consiste nel «cominciare o ricominciare a sentirsi parti in causa, non rappresentanti di una universalità spettrale» (p. 111), contrastando così «l’ossessione cospirativa», l’idea che tutta la società sia unita contro le vittime, perché questa ossessione è semplicemente una «razionalizzazione fallace» (p. 110).
La forza della vittima deve essere una spinta ad agire rifiutando, innanzitutto, una risposta unanime perché «una risposta unanime è soltanto una risposta falsa» (p. 111). Accettare che il conflitto non è risolvibile, accogliere la pluralità, sentirsi parti in causa sono strumenti fondamentali per evitare che la forza della vittima si risolva in un lubrificante dei meccanismi del potere.