L’ebreo che ride

Il riso ha una dimensione salvifica: salva dall’impudenza di prendersi troppo sul serio, disinnesca le critiche, anche le più feroci, libera dalle paure e dalla tristezza, fosse solo per un attimo, e dà respiro allo spirito affranto. Un vecchio adagio yddish dice “l’uomo progetta e Dio ride”, perché ridere ha anche una dimensione divina. Bene lo racconta Moni Ovadia nel suo “L’ebreo che ride”, un libro che nasce da ciclo di lezioni sull’umorismo ebraico che l’autore ha tenuto presso l’Università di Padova. Umorismo ed ebraismo sono connessi fin dalle origini. Infatti, quando l’Arcangelo comunica ad Abramo e Sarah che avranno un figlio sono entrambi molto anziani (cento anni lui, novanta lei) e all’annuncio loro scoppiano in una risata. Il figlio, da cui appunto origina il popolo ebraico, viene chiamato “Isacco”, che in ebraico vuol dire “Colui che rise”. Nel volume di Moni Ovadia rivive l’immaginario del villaggio ebraico dell’Europa dell’est (lo shtetl), con i suoi stereotipi, le sue paure, le sue follie. Un libro scorrevole, ricco e illuminante, come la cultura a cui attinge.

L'ebreo che ride

Incipit:

L’idea del divino che viene attribuita agli ebrei dall’esterno è ben riassunta nella grevità della definizione: “Dio vetero-testamentario”.
Questa formula richiama l’immagine di un Dio decrepito, terribile, vendicativo e geloso. Contumelie e riprovazioni iterate con maniacale e sadica insistenza sono state sopportate da generazioni di ebrei accusati di crudeltà per aver concepito un Dio così implacabile. Alcuni ebrei messi alle corde hanno finito per riconoscere la loro grave colpa.
Un lord inglese, al suo ricevimento annuale, ha invitato anche il Vescovo anglicano ed il Rabbino che, con malizioso intento, sono stati sistemati vicini a tavola.
Il Vescovo non resiste alla tentazione di punzecchiare il rabbino e gli dice: «Rabbino carissimo, suvvia! Lo riconosca! Il vostro Dio è così tremendo, tetragono, minaccioso, vendicativo. Il nostro invece è tutto bontà, perdono, indulgenza, sacrificio…»
«Sono totalmente d’accordo con lei, Vescovo», riconosce candidamente il Rabbino, «il vostro Dio ha preso per sé tutte le migliori qualità e non ne ha lasciata alcuna ai suoi devoti».

Citazione:

Shloimele e Duvidl, due studenti di yeshivà, sono accaniti fumatori, sanno che questo loro vizio è guardato con sospetto, ma la voglia di fumare non li lascia mai. Decidono allora di chiedere al rabbino come comportarsi al riguardo. Va, a nome di tutti e due, Shloimele: “Rabbino, rabbino”. “Dimmi Shloimele caro, cosa c’e’?”. “Rabbino io ti volevo domandare… quando si studia il Toyre, si può fumare?”. “Cosa ti viene in mente, razza di vizioso che sei? Quando si studia, si studia e basta!”. Con la coda fra le gambe, Shloimele torna da Duvidl e gli racconta della lavata di capo che gli ha fatto il rabbino. “Sai quale è il problema con te? – gli dice Duvidl – Tu non sai fare le domande. Lascia, vado io. “Rabbino, rabbino, io ti vorrei fare una domanda”. “Dimmi, Duvidl caro, sono qui per questo”. “Rabbino… quando si fuma, si può studiare il Toyre?”. “Certo, Duvidl caro! Sempre è un buon momento per studiare il Toyre!” esclama il rabbino entusiasta.

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Iezabele

I libri dei Re, come in Samuele, raccontano le vicende dei sovrani di Israele, dalla sua espansione e prosperità sotto Davide e Salomone alla sua divisione e all’esilio del popolo di entrambi i regni: quello di Israele a nord e quello di Giuda al sud.

Iezabèle è una regina dell’antico Israele, la sua storia è raccontata nella Bibbia, primo e secondo libro dei Re. Iezabèle era una principessa fenicia andata in sposa ad Acab, re di Israele. Secondo alcune genealogie, tra i suoi discendenti ci sarebbe anche Didone, la regina di Cartagine.
Per stringere alleanza con i fenici e allontanarsi dal regno di Giuda, Iezabèle introduce il culto del dio fenicio Baal e fa uccidere i sacerdoti del dio ebraico. Il nome “Iezabèle” ricorda, infatti, la lamentazione אֵיזוֹ בַּעַל‎ (traslitterato ’ēyzō ba’al) “dov’è il principe?”, tipica delle cerimonie di adorazione di Baal.

Iezabele

Dio, allora, invia il profeta Elia che sfida i sacerdoti di Baal e mostra loro, con un miracolo, che Dio è dalla sua parte.  Il popolo, su parola di Elia, cattura i servi di Baal ed Elia li uccide.

Elia ordina ad Acab di prepararsi per andare a Izreel e Acab lo segue. Quando Acab racconta quanto successo a Iezabèle e come siano morti i sacerdoti, la donna invia un messaggio ad Elia dicendogli «gli dèi mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest’ora non avrò reso la tua vita come la vita di uno di loro». Tanto appare forte Iezabèle che Elia ne rimane impaurito e fugge.
Sarà l’intervento continuo del Signore a ridare forza a Elia: «Che cosa fai qui, Elia?». Il Signore chiede a Elia di prepararsi e di ungere Ieu, come nuovo re di Israele, annunciandogli che risparmierà solo 7000 persone di Israele, che non si sono inginocchiate a Baal.

La Bibbia ci racconta un altro episodio della sovrana. Nabot di Izreèl aveva una vigna che Acab voleva possedere, perché era confinante. Nabot, però, si era rifiutato di cedergliela. Iezabèle, allora, interviene e corrompe alcuni uomini perché accusino Nabot di empietà e lo lapidino. Il Signore, di fronte a tanta spregiudicatezza, spinge Elia a intervenire e il profeta predice alla donna che il suo corpo e quello dei suoi famigliari sarà mangiato dai cani e dagli uccelli: «I cani divoreranno Iezabèle nel campo di Izreèl; nessuno la seppellirà».

Così accade che Acab muoia in battaglia e salgano al trono i suoi due figli, Acazia e Ioram. Un nuovo profeta Eliseo, spinge Ieu a intervenire. Ieu, che stava organizzando un colpo di stato, uccide Ioram con una freccia alle spalle, mentre cercava di fuggire. Stessa sorte capita al fratello, Acazia. Entrambi i corpi vengono lasciati insepolti.

Iezabèle viene a sapere della morte di Ioram e del prossimo arrivo di Ieu a palazzo e decide di attenderlo. La Bibbia ci dice che la donna si trucca gli occhi, mette gli abiti migliori, si sistema i capelli e si pone di vedetta. Quando Iezabèle vede arrivare l’uomo, anziché riconoscerlo come nuovo sovrano, gli domanda: «Tutto bene, Zimrì, assassino del suo signore?». A queste parole Ieu, incita i servi che gettano la donna dalla finestra, dove verrà diverrà divorata dai cani.

Iezabele

Donna forte, spregiudicata e senza timore, il nome di Iezabèle torna nell’Apocalisse di Giovanni. Il nome, questa volta, è di una finta profetessa, simbolo della perdizione e della lussuria e ancora una volta è il Signore a dire «io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione».

Jezebel sarà un film del 1938 con protagonista Bette Davis, che interpreterà Julie, una donna le cui azioni la fanno assomigliare a Iezabèle.

Nella cultura popolare, però, è celebre la canzone Jezebel scritta da Wayne Shanklin e interpretata anche da Édith Piaf, con la traduzione di Charles Aznavour.

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Hannah Arendt

Hannah Arendt è una delle più importanti figure del pensiero filosofico del Novecento. La sua vita e la sua opera sono strettamente legate agli eventi del secolo, in particolare alla sua esperienza personale come ebrea perseguitata durante la Seconda Guerra Mondiale e alla sua analisi del totalitarismo. Arendt ha scritto su una vasta gamma di argomenti, tra cui la teoria della politica, la filosofia morale, l’etica e la filosofia della storia, ma si è distinta soprattutto per la sua analisi della condizione umana e della natura dell’azione politica. Nonostante la sua vasta produzione, Arendt ha sempre sostenuto di essersi “congedata” dalla filosofia, preferendo identificarsi come una pensatrice politica.

Hannah Arendt

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Lo shabbat

Shabbat
39 sono le attività che durante lo shabbat sono vietate. Lo shabbat, il sabato, per gli ebrei è un giorno particolare. Il precetto di santificare questo giorno sta, tra i comandamenti, nella lista dei doveri verso Dio, nella prima delle due tavole. Idealmente, lo shabbat rappresenta la festa dell’esistenza del mondo. La Genesi ci dice che il settimo giorno Dio si riposò e usa il termine shavat, cessare/smettere, da cui il termine shabbat. Tanto è importante questo giorno che viene anche chiamato  Shabbat Hamalkà (la regina Shabbat), perché deve essere accolto e ci si deve preparare proprio come se stesse arrivando una regina.
Shabbat
L’esaltazione di questo giorno non ci deve far credere che per gli ebrei il riposo sia più importante del lavoro, come una contrapposizione otium e negotium, dove il negotium rappresenti quasi un male minore da sopportare. Infatti, come il Talmud e i detti rabbinici riportano, è dovere dell’uomo lavorare, per guadagnarsi da vivere e per mantenere l’ordine sociale: “è più grande chi gode del frutto del suo lavoro, che chi teme il Cielo”; “chi non ha lavorato non mangerà” (che risuona nelle parole di Paolo di Tarso “chi non lavora neppure mangi”); “ama il lavoro”; “il lavoro onora i lavoratori”.
Lo shabbat  si comprende, allora, come un limite all’uomo inteso come creatore del proprio destino, homo faber. L’obbligo del riposo e della celebrazione si impone allo stesso modo a uomini e donne, genitori e figli, padroni e servi. In questo giorno, in tal modo, si fa esperienza di giustizia, uguaglianza e armonia, come una anticipazione della condizione del paradiso. Tutti sono chiamati a fermarsi e a osservare e celebrare la creazione, Dio e a condividere con gli altri.  
I lavori (“melachot“) proibiti sono articolati in modo preciso:
 
– Arare;
– Seminare;
– Mietere;
– Formare covoni;
– Trebbiare;
– Ventilare;
– Selezionare;
– Setacciare;
– Macinare;
– Impastare;
– Cuocere;
– Tosare;
– Lavare;
– Cardare;
– Tingere;
– Filare;
– Tendere;
– Costruire un setaccio;
– Tessere;
– Dividere due fili;
– Legare; 
– Slegare;
– Cucire;
– Strappare;
– Cacciare;
– Macellare;
– Scuoiare;
– Salare la carne;
– Disegnare;
– Lisciare;
– Tagliare;
– Scrivere;
– Cancellare;
– Costruire;
– Demolire;
– Spegnere un fuoco;
– Accendere un fuoco;
– Dare l’ultima mano per terminare un lavoro;
– Trasportare al di fuori della propria abitazione;
 
Queste attività vanno intese come categorie di attività. In molti casi sono attività che danno luogo a qualcosa che rimane anche dopo che la nostra azione termina o che hanno a che fare con il commercio, i viaggi e gli scambi.
 
Il filosofo ebreo Abraham Joshua Heschel scrive dello shabbat:
 
“La Creazione, ci insegnano, non è un atto che successe una volta nel tempo, una sola volta e per sempre. L’atto di portare il mondo in essere è un processo continuo. Dio ha chiamato il mondo ad esistere, e tale chiamata continua. C’è questo preciso istante perché Dio è presente. Ogni istante è un atto di creazione. Ogni momento non è terminale ma una scintilla, un segnale di Principio. Il tempo è un’innovazione perpetua, un sinonimo di creazione continua. Il tempo è il dono di Dio al mondo dello spazio.[…]
Nello Shabbat ci è dato di condividere la santità che risiede nel cuore del tempo. Anche quando l’anima è angosciata, anche quando nessuna preghiera può uscirci di gola nel dolore, il puro riposo silente dello Shabbat ci porta nel reame di una pace senza fine, o all’inizio di una consapevolezza di ciò che l’eternità significa.”
 

Bibliografia:
Cohen Abraham (tr. it. A. Toaff), 1999, Il Talmud, Roma, Laterza
Heschel Abraham Joshua (tr. it. L. Mortara), 2018, Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Milano, Garzanti
Stefani Piero, 1997, Gli ebrei, Bologna, Il Mulino
 
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