Il racconto dell’ancella

Raccontare un mondo possibile, questo possono le grandi menti. Narrare le ferite, creare degli squarci nella nostra quotidianità. Margaret Atwood ne “Il racconto dell’ancella” ci proietta in un futuro distopico terribile proprio perché possibile. Una società in cui le donne sono divise in base alla loro capacità genitoriale in mogli, zie, marte e ancelle. Queste ultime hanno il compito di generare figli per altri, attraverso uno stupro sistematico. “La normalità, diceva zia Lydia, significa ciò a cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrare normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”. Un racconto in cui nessun personaggio è veramente buono e nessuno veramente malvagio, ma tutti riescono ad essere vittime e carnefici, come in tutti i sistemi totalitari. “Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo”. L’oppressione passa attraverso il linguaggio della narrazione, le parole cambiano di significato, alcune diventano tabù. Nel buio più totale, però, non muore la speranza, incisa nella scritta “Nolite te bastardes carborundorum”, che in latino maccheronico è un invito a resistere: “non lasciare che i bastardi ti annientino”.

Il racconto dell'ancella

Incipit:

Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L’impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt’attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l’aleggiare di un’immagine, l’odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde.

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Questione di genere e femminismo

La questione di genere indica l’insieme delle barriere, della disparità e della disuguaglianza dovuta all’appartenenza a un genere

Essendo le donne le più discriminate e più frequentemente in una situazione di subalternità, la questione di genere si intreccia con il femminismo.

Femminismo

Il femminismo

Il termine «femminismo» si afferma solo alla fine del XIX secolo, ma già dal ‘700 le donne cominciano a definire e ad analizzare lo stato di disuguaglianza in cui si trovano.
Nel femminismo si distinguono tre ondate che sono state caratterizzate da alcune idee comuni di fondo:

  • Prima ondata (dal XIX secolo al 1960): la lotta per l’uguaglianza giuridica e l’acquisizione di alcuni diritti (e in modo particolare il diritto di voto);
  • Seconda ondata (anni ‘70 e ‘80): analisi delle origini dell’oppressione della donna, critica all’idea di femminilità;
  • Terza ondata (dagli anni ‘90): la lotta femminista continua includendo le istanze delle donne di colore, delle donne omosessuali e delle altre minoranze.

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We Can Do It!

We Can Do It! è un manifesto statunitense di propaganda della Seconda Guerra Mondiale, creato nel 1943 da J. Howard Miller per la Westinghouse Electric come immagine per sollevare il morale dei lavoratori. Il manifesto è conosciuto anche come “Rosie the Riveter” e rappresenta un’operaia donna nell’industria bellica. Durante la guerra l’immagine non aveva lo scopo di reclutamento, ma di esortare le operaie a lavorare più duramente. L’immagine di “We Can Do It” viene poi usata, negli anni Ottanta, per promuovere il femminismo.

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