Raccontare un mondo possibile, questo possono le grandi menti. Narrare le ferite, creare degli squarci nella nostra quotidianità. Margaret Atwood ne “Il racconto dell’ancella” ci proietta in un futuro distopico terribile proprio perché possibile. Una società in cui le donne sono divise in base alla loro capacità genitoriale in mogli, zie, marte e ancelle. Queste ultime hanno il compito di generare figli per altri, attraverso uno stupro sistematico. “La normalità, diceva zia Lydia, significa ciò a cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrare normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”. Un racconto in cui nessun personaggio è veramente buono e nessuno veramente malvagio, ma tutti riescono ad essere vittime e carnefici, come in tutti i sistemi totalitari. “Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo”. L’oppressione passa attraverso il linguaggio della narrazione, le parole cambiano di significato, alcune diventano tabù. Nel buio più totale, però, non muore la speranza, incisa nella scritta “Nolite te bastardes carborundorum”, che in latino maccheronico è un invito a resistere: “non lasciare che i bastardi ti annientino”.
Incipit:
Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L’impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt’attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l’aleggiare di un’immagine, l’odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde.