“Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi”, dimenticare se stessi, smettere di detestarsi. “Diario di un parroco di campagna” è stato pubblicato da Goerges Bernanos nel 1945 ed è un libro stupendo sulla grandezza e la miseria umana, sulla fede, che non è moralismo, sulla grazia che è veramente un dono: “Non fosse per la vigilante pietà di Dio, mi sembra che al primo prender coscienza di sé stesso l’uomo ricadrebbe in polvere”. Il parroco di campagna si trova di fronte a persone inaridite dal dolore, dalla povertà, dall’arroganza. Si può ancora credere a un dio quando la gente soffre per la fame? (“Un ventre di un miserabile ha più bisogno d’illusioni che di pane”) Possiamo amare dio, quando un figlio muore? “Signora, se il nostro Dio fosse il dio dei pagani o dei filosofi (è la stessa cosa) potrebbe anche rifugiarsi nel più alto dei cieli, la nostra miseria lo farebbe precipitare. Potrebbe mostrargli i pugni, sputargli in faccia, flagellarlo e da ultimo inchiodarlo su una croce, che importa? Tutto è già stato fatto”. L’amore è il vero protagonista di questo libro: “Nulla può separarci, in questo mondo o nell’altro, da ciò che abbiamo amato più di noi stessi, più della vita, più della salvezza” ed è per questo che “l’inferno è non amare più”. Un testo meraviglioso e formativo, scorrevole e poetico: “tutto è grazia”.
Incipit:
La mia parrocchia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte. Le parrocchie d’oggi, naturalmente. Lo dicevo ieri al curato di Norenfontes: “Il bene e il male debbono equilibrarsi; sennonché, il centro di gravità è collocato in basso, molto in basso. O, se lo preferite, si sovrappongono l’uno all’altro senza mescolarsi, come due liquidi di diversa densità”. Il curato m’ha riso in faccia. È un buon prete, affabilissimo, molto paterno, che all’arcivescovado passa addirittura per un ingegno forte, un po’ pericoloso.