Il conflitto è madre di tutte le cose

Atene, V secolo a.C. Mentre l’acropoli riflette il bagliore del sole, Socrate, circondato da un gruppo di giovani ateniesi, sfida un sofista di nome Protagora. Socrate, con la sua abituale ironia, pone domande penetranti, cercando di smantellare le affermazioni relativistiche del sofista. Protagora, da parte sua, è un maestro della retorica, abilmente agile nel difendere le sue posizioni. L’aria è densa di tensione, ma anche di eccitazione. Qui, nel cuore della polis, emerge un conflitto profondo tra due visioni del mondo [1].

Capita spesso di leggere nei giornali delle critiche agli intellettuali accusati di essere divisivi, conflittuali, polemici e provocatori. Ci si immagina, in questi casi, che l’intellettuale stia abbandonando il luogo ameno in cui dovrebbe essere relegato, probabilmente la poltrona di casa, per portare scompiglio anziché contribuire all’ordine e a mantenere lo status quo.

Riflettere sulla conflittualità, di idee e valori, diventa fondamentale per comprendere quanto manchino in Italia questo tipo di intellettuali e quanto, invece, siano necessari. Mentre abbondano, purtroppo, polemisti e provocatori.

Il conflitto di idee non è uno scontro retorico

Tornando a parlare di Socrate e del suo scontro con Protagora, vediamo come il conflitto d’idee possa diventare un’arte necessaria alla comunità. Viene utilizzata la parola “conflitto” in modo preciso, come urto, collisione e mescolamento, come in una zuffa, come rivela l’etimologia «cum + fligere», cioè «percuotere insieme». Socrate non dibatte solo per il piacere del confronto, ma percuote le idee dell’interlocutore, le analizza, le critica, le demolisce e le mescola, per guidare gli individui verso la verità e, conseguentemente migliorare la comunità. Tale attività differisce dalla competizione retorica, di cui è un esempio Cicerone, che invece punta alla vittoria oratoria senza necessariamente far evolvere il pensiero. Mentre l’obiettivo di Socrate è etico e legato al bene comune, la competizione retorica può tranquillamente trascurare tali valori.

Il conflitto è potente

Il conflitto-polemos, come insegna Eraclito, è «padre di tutte le cose e di tutte è sovrano e gli uni li disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni li fa schiavi gli altri liberi» [2]. La conflittualità ha da sempre avuto un ruolo centrale nella riflessione filosofica, non solo come mera espressione di disaccordi, ma come catalizzatore di crescita e cambiamento. Il conflitto è potente, ma la sua forza non risiede nel distribuire potere, quanto piuttosto nell’aprire nuove prospettive e creare possibilità. Laddove c’è conflitto, c’è anche l’opportunità di esplorare, di sfidare e di essere sfidati, permettendo la nascita di nuove visioni del mondo.

Tale visione del conflitto si allontana dalla semplice contesa o dalla divisione tra vincitori e vinti. È piuttosto un mezzo per affinare le idee, mettere alla prova le proprie convinzioni e imparare dagli altri. In questo contesto, essere conflittuali non diventa un segno di aggressività, ma un invito alla profonda riflessione e crescita personale.

La filosofia di Hegel ce ne fornisce una chiara illustrazione. Per Hegel, la dialettica – ovvero il processo attraverso il quale le idee si scontrano e si risolvono in una sintesi superiore – è la forza trainante della storia e del pensiero. Il conflitto, nella sua visione filosofica, non è solo inevitabile, ma necessario. L’«immane potenza del negativo», di cui parla il filosofo, non è un’entità distruttiva, ma piuttosto una forza che rompe le vecchie strutture per dar spazio a nuove formazioni. Attraverso l’opposizione e il confronto emergono nuove verità o, per meglio dire, la stessa verità a un livello più alto.

Il conflitto è democratico

Il conflitto genuino di idee è intrinsecamente legato all’essenza della democrazia. Come ha sintetizzato Michela Murgia: «io sono conflittuale perché sono democratica» [3]. La democrazia si basa sull’idea che ognuno abbia il diritto di esprimere la propria opinione, di essere ascoltato, e che queste opinioni possano coesistere e competere pacificamente nello spazio pubblico.
Ancora una volta dobbiamo rifarci alla tradizione greca. Nella polis greca, infatti, l’agorà rappresenta non solo un mercato ma anche un luogo di discussione e di dibattito pubblico, una manifestazione dell’«agire politico», come Hannah Arendt ha scritto in Vita activa. Per Arendt, infatti, la politica non è solo il risultato di azioni, ma è l’azione stessa, avvenuta nello spazio pubblico tra individui unici e distinti.

La filosofia, d’altronde, ha sempre riconosciuto l’importanza di questo confronto. John Stuart Mill, nel suo testo Sulla libertà, ha sottolineato come solo attraverso il confronto e il dibattito possiamo avvicinarci alla verità. Per Mill, persino una falsa opinione ha valore, in quanto mettendo alla prova la verità, la rinforza. Ma Mill avverte anche dei pericoli di una «tirannia della maggioranza», dove le opinioni impopolari vengono soffocate, e sottolinea l’importanza di proteggere la libertà di espressione.

In un sistema democratico, infatti, la pluralità delle voci e delle opinioni è essenziale per garantire una vera rappresentanza dei cittadini. Tuttavia, come la storia di Socrate ci insegna, la conflittualità porta inevitabilmente alla divisione. Ma non dobbiamo pensare che questa divisione sia di per sé negativa. Essere divisivi non significa alimentare cieche tifoserie o scendere in insensate faide. Significa piuttosto delineare chiaramente le posizioni, articolare visioni del mondo diverse e invitarne l’esplorazione. In questa divisione, si presentano mondi che possiamo scegliere di abitare o rifiutare.

Il conflitto non è derisione

La conflittualità è al cuore del nostro stare insieme. Tuttavia, è fondamentale distinguere tra il confronto genuino e la semplice derisione o l’insulto. Il conflitto genuino richiede, come Socrate dimostra, una certa forma di rispetto reciproco. Anche se Socrate spesso demolisce gli argomenti dei suoi interlocutori, lo fa attraverso domande metodiche e profonde e la sua ironia non cade mai nel vilipendio. Questa è la base del metodo socratico: un modo di interrogare che porta l’interlocutore a riconoscere le proprie inconsistenze, spingendolo verso una maggiore chiarezza di pensiero. Del rispetto che dobbiamo avere per l’interlocutore ne ha parlato in modo estremamente chiaro Kant. Come sottolinea Immanuel Kant attraverso il suo concetto dell’imperativo categorico, dobbiamo trattare gli altri non (solo) come mezzi, ma come fini in sé [4]. Questo suggerisce che, anche nel mezzo del conflitto, dobbiamo riconoscere la dignità intrinseca dell’altro e trattarlo con rispetto.

Il conflitto, tuttavia, può snaturarsi e sfociare nel desiderio di sopraffazione. È un altro filosofo, Friedrich Nietzsche, a mostrarci i pericoli della «volontà di potenza», che per Nietzsche si esercita nel porre valori e schemi interpretativi nuovi. La volontà di potenza, che è una forza vitale e auto-creatrice, diventa pericolosa quando diventa un mezzo per schiacciare gli altri piuttosto che per elevare se stessi [5]. Sminuire e ridurre l’altro, attraverso l’insulto e la derisione, è solo un modo per esercitare un potere di dominio. Questo, però, non ha nulla a che fare con la vera conflittualità, che mira a una comprensione più profonda, e diventa piuttosto un tentativo di sopprimere il dialogo stesso.

Martin Buber, nel suo celebre lavoro Io e Tu, ha sottolineato l’importanza di vedere l’altro come un vero interlocutore, un «Tu», piuttosto che come un oggetto di derisione o di disprezzo. Secondo Buber, quando trattiamo l’altro come un vero interlocutore, possiamo entrare in una relazione autentica, che è la base di ogni dialogo profondo e significativo.

Il conflitto non è una provocazione

Il conflitto provoca, perché come insegna l’etimologia «chiama fuori», ma non è una semplice provocazione , intesa come azione concepita per suscitare una reazione, spesso di natura emotiva. La provocazione, infatti, è un’arte superficiale, che gioca con le apparenze e si nutre di reazioni immediate, fa leva sui nostri istinti, sulle nostre fragilità. Al contrario, la conflittualità, intesa come scontro di idee, va oltre la superficie, scavando in profondità, cercando verità e chiarimento e tirandole fuori, affinché possano essere viste, comprese e giudicate. La conflittualità fa leva sulla razionalità, discute i valori. Una provocazione chiude il dialogo, mentre un conflitto autentico lo apre.

La conflittualità svela e rivela i veri elementi in gioco. E qui come non ricordare Martin Heidegger che, nel suo esame dell’essenza della verità (aletheia, ciò che viene svelato), ha sottolineato come questa emerga attraverso un processo di rivelazione e occultamento [6]. Tuttavia, nel contesto del nostro discorso, è evidente che la provocazione tenda più a oscurare che a rivelare.

Il conflitto non è una polemica

Il conflitto di idee trascende la semplice polemica. Mentre il primo si focalizza sulla profondità dell’argomentazione e sulla ricerca di verità, illuminando le molteplici sfaccettature di un problema, la polemica è spesso caratterizzata da una critica superficiale e talvolta acrimoniosa, e spesso cade nella trappola dell’ad hominem, attaccando la persona piuttosto che l’argomento. Inoltre, la polemica può diventare un mezzo per mascherare la propria insicurezza intellettuale, distogliendo l’attenzione dal vero dibattito. Il conflitto di idee non sfugge dagli elementi profondi in gioco e li mette in luce.

Il conflitto fa emergere il dissenso già esistente

Nel nostro mondo moderno, dove le idee spesso diventano trincee e le divisioni sembrano profonde e incolmabili, è essenziale comprendere la vera natura della conflittualità. Essere conflittuali non significa esacerbare gli animi o cercare la discordia per il suo stesso valore. Al contrario, si tratta di far emergere il dissenso, di dare voce a quelle opinioni e sentimenti che, se soppressi, potrebbero trasformarsi in un veleno corrosivo, alimentando sentimenti di impotenza, solitudine e frustrazione. La potenza del dissenso risiede nella sua capacità di sfidare lo status quo, di sollecitare la società a riflettere criticamente e di spingere verso il cambiamento.

Il filosofo olandese Baruch Spinoza ha sostenuto che la libertà di pensiero e di espressione sono essenziali per il progresso della conoscenza e della morale, perché queste vanno di pari passo [7]. In questo senso, il conformarsi del pensiero può solo portare a una stagnazione intellettuale, che è anche una immaturità morale.

Un altro filosofo, Jürgen Habermas, ha parlato di «agire comunicativo», sottolineando l’importanza di uno spazio pubblico in cui gli individui possano discutere liberamente, in condizioni di parità, senza costrizioni o manipolazioni [8]. In questo contesto, il dissenso diventa un mezzo per raggiungere una comprensione intersoggettiva e un consenso genuino.

Il conflitto permette di costruire

Infine, il conflitto spesso è percepito come un elemento di frattura, ma richiede in realtà due qualità essenziali alla costruzione di un orizzonte comune: l’intelligenza e l’empatia. Intelligenza, perché il conflitto richiede capacità di analisi e riflessione per difendere le proprie idee e comprendere le opinioni altrui. Empatia, perché a un livello profondo, il conflitto ci spinge a vedere il mondo attraverso gli occhi dell’altro. Questo non significa essere d’accordo con il suo punto di vista, ma piuttosto comprendere da dove provengono, quali esperienze o credenze stanno guidando le sue opinioni e sentimenti.

Note

[1] cfr. Platone, Protagora

[2] Eraclito, frammento 53

[3] M. Murgia, Istruzioni per diventare fascisti (video)

[4] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, UTET, 1995, pp. 88

[5] cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra e scritti successivi

[6] M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, 1987

[7] cfr. B. Spinoza, Etica

[8] J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo

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Hegel: il problema dell’Antigone

Il mito di Antigone ha sempre affascinato Hegel, tanto che egli fin dalle sue prime opere ne parla come di una “tragedia superba”. Nella Fenomenologia dello Spirito, il filosofo tedesco tratta questo mito in due occasioni: dal punto di vista storico, come esemplificazione dello stato conflittuale nel regno greco; e dal punto di vista artistico nel capitolo successivo, come esemplificazione della tragedia in generale.

L’Antigone di cui parla Hegel è quella narrataci da Sofocle: figlia del re di Tebe, Edipo, il quale ha risolto l’indovinello della Sfinge ma che viene esiliato quando viene scoperto il suo parricidio e l’incesto, benché compiuti involontariamente; Antigone, sorella di Polinice ed Eteocle che avrebbero dovuto regnare sulla polis, decide di dare sepoltura al fratello Polinice dopo che i due ragazzi si sono uccisi tra di loro. In questo modo trasgredisce l’editto di Creonte, suo zio e nuovo regnante, che la condanna a morte.

Sofocle riprende il mito dalla tradizione e pone delle modifiche sostanziali: un ditirambo di Ione di Chio, benché non sia l’origine del mito, ci mostra un archetipo precedente. Secondo questa versione, la proibizione della sepoltura sarebbe da attribuire al figlio di Eteocle, Laodama, mentre entrambe le sorelle di Polinice rifiutano di osservare l’interdizione.

I cambiamenti introdotti da Sofocle portano la vicenda da una vendetta familiare ad uno scontro politico, e la differenziazione dell’attitudine delle due sorelle accentua la grandezza morale e la tragicità di chi porta avanti i precetti sacri, ossia Antigone.

E di questo mito si serve il filosofo: dello scontro tra l’individuo e la polis. Non l’individuo e lo stato in genere, ma in un tempo determinato, in un periodo dove il singolo conta solo come cittadino, dove c’è una simbiosi tra i vari uomini in una comunità che sopprime l’individualità che trova spazio solo nella famiglia, ossia una comunità naturale.

In questa fase storica, la comunità è immediata e naturale e quindi non è veramente universale ed ha bisogno degli individui solo come numero, come soldati per la guerra, la quale, secondo il filosofo, costituisce l’azione universale per eccellenza; in questo modo essa si contrappone alla famiglia in quanto necessariamente ne uccide i membri. Ma è proprio quando la comunità sopprime l’individuo, non considerando la sua particolarità e le sue emozioni, quando cioè tenta di comprimere la famiglia, è proprio da quest’ultima che si erge chi nella guerra vede l’aspetto umano e vede cadere non un soldato, ma il marito, il fratello, il figlio particolari. Si erge l’elemento femminile che chiede che venga riconosciuto l’individuo, ma non l’individuo in generale, bensì un individuo particolare: il fratello. E’ nel negare l’atto che permette all’individuo di giungere ad un significato spirituale, di essere riconosciuto come particolare che si erge la donna: Antigone appunto. E questa comunità può soltanto andare a fondo.

Il libro di Ruth

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