Analfabetismi

Analfabetismi

Quando l’Italia si è unificata, nel 1861, l’analfabetismo in Italia riguardava il 78% della popolazione, che non era in grado di scrivere neppure il proprio nome.

Nel 1951 si è deciso di intendere con analfabetismo l’incapacità di leggere e scrivere, dovuta ad una mancata istruzione di base. La popolazione analfabeta era del 12-13%.

Approfondendo il tema è apparso subito un nuovo aspetto: l’analfabetismo di ritorno, con cui si intende l’incapacità o difficoltà a leggere e scrivere, dovute ad una mancanza di esercizio e di applicazione.

Il risultato è sempre lo stesso: una persona non sa né leggere né scrivere, capendolo, un brano semplice in rapporto con la sua vita giornaliera (definizione Unesco).

Nel 2001 gli analfabeti in Italia erano circa l’1% della popolazione.

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Velina

Velina - Fascismo

Durante il fascismo, il governo mandava ai giornali piccoli fogli di carta velina (un tipo di carta molto leggera) con le informazioni ufficiali da pubblicare e con le indicazioni su che cosa non andava pubblicato. A partire dagli anni novanta, un programma televisivo molto popolare, un telegiornale satirico, ha chiamato “veline” le ragazze che portavano le notizie ai giornalisti che le leggevano: un modo scherzoso per sottolineare l’importanza della libertà di stampa. In seguito, con la parola “velina” si è indicata in generale ogni valletta televisiva scelta per la sua bellezza e non per altre qualità.

Alcuni esempi delle veline:

Velina

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Bel Paese

Bel Paese

L’espressione Bel Paese nasce dai versi dei due più importanti poeti italiani. Dante Alighieri (XIII-XIV secolo), nell’Inferno, parla di “bel paese là dove ‘l sì sona”, con riferimento alla lingua italiana (la cosiddetta “lingua del sì”, contrapposta alla “langue d’oc” e alla “langue d’oïl”), mentre Francesco Petrarca (XIV secolo) cita l’unità territoriale nel suo Canzoniere: “il bel paese / Ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe”. Due testi che si richiamano a un’unità italiana con oltre 500 anni d’anticipo rispetto al processo politico del Risorgimento (1861).

Nel 1876 l’abate Antonio Stoppani scrive Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia, un libro che diventa presto un best seller e che aiuta gli italiani del nuovo stato unitario a conoscere meglio il proprio paese.

Nel 1906 Egidio Galbani decide di mettere in vendita un formaggio che faccia concorrenza ai formaggi francesi, all’epoca più noti. Lo chiama Bel Paese e sulla confezione mette l’immagine dell’abate Stoppani, al cui libro si è ispirato.

Oggi Bel Paese è l’espressione con cui comunemente è conosciuta l’Italia.

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Qualunquismo

L'Uomo qualunque

Nel 1944 Guglielmo Giannini, giornalista che ha vissuto, come tanti italiani, la tragedia della morte di un figlio in guerra (evento che peserà nelle sue scelte pubbliche), fonda una rivista, L’Uomo Qualunque, subito seguita dal movimento politico Fronte dell’Uomo Qualunque. Il partito si fa portatore delle istanze di sfiducia nei partiti politici e nelle istituzioni pubbliche, dando voce a chi ritiene che lo Stato e la politica siano sempre nemici delle persone comuni. La guerra, le distruzioni e le macerie politiche e morali dell’Italia all’indomani della caduta del fascismo lo portano a maturare un sentimento di completa sfiducia. Dagli avversari il movimento politico viene accusato di essere di ispirazione fascista, anche se in realtà si tratta di un partito dal tratto molto libertario (lo Stato, simbolo di ogni male, secondo il Fronte dell’Uomo Qualunque va ridotto al minimo). Alle elezioni del 1946 il Fronte dell’Uomo Qualunque raccoglie il 5,3% dei voti, concentrati soprattutto nel Sud Italia (che, a differenza del Nord, non ha partecipato alla rinascita nazionale con la Resistenza). Negli anni seguenti il partito viene coinvolto nell’orbita governativa e nel 1948 si scioglie: i suoi membri vanno in gran parte nei partiti monarchico (PNM) e liberale (PLI), qualcuno nel partito neofascista del Movimento sociale italiano (MSI).

La parola qualunquista indica, ancora oggi, un rifiuto e una sfiducia nella politica e nelle istituzioni, senza distinzioni di responsabilità tra i diversi soggetti. Il termine è utilizzato in senso negativo.

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Ambaradam

Guerra in Etiopia

A volte la cultura popolare precede quella accademica. Non da molti anni c’è piena coscienza (e ci sono studi documentati e approfonditi) dei crimini dei militari italiani in Etiopia, nel corso della guerra fascista del 1935-1936, occasione in cui furono sperimentate e utilizzate armi chimiche contro anche la popolazione civile: se la classe politica democratica ha preferito non aprire quella tragica pagina della storia italiana, gli studiosi hanno dovuto aspettare l’apertura degli archivi per poter fare luce.

Una delle battaglie decisive di quella guerra fu nel febbraio 1936 sul massiccio dell’Amba Aradam. Le forze italiane, al comando del generale Pietro Badoglio, avevano già conquistato gran parte del paese, ma erano ancora impegnate nella lotta contro le truppe etiopi, guidate dall’imperatore Haile Selassie. Amba Aradam era uno dei principali obiettivi delle truppe italiane, poiché rappresentava una posizione strategica per il controllo della regione. Tuttavia, la montagna era anche nota per la sua difficile accessibilità e le sue ripide pareti rocciose, che la rendevano una fortezza naturale praticamente inespugnabile.

L’esercito italiano vinse con molte perdite (800 militari) dopo dieci giorni di conflitto, ma i morti etiopi furono ancor di più: almeno 20 mila, tra militari e civili. A causare la strage furono i gas tossici, utilizzati non solo per vincere sul campo, ma anche per indurre gli etiopi a non ribellarsi all’esercito occupante all’indomani della fine del conflitto.

Guerra in Etiopia

Tornati in patria, i militari italiani cominciarono a utilizzare l’espressione «come ad Amba Aradam» per indicare una situazione caotica. L’espressione ha avuto successo e col tempo, complice una pronuncia che risulta buffa alle orecchie di un italiano, la parola «ambaradam» si è trasformata in «caos divertente». Resta la curiosa storia di una parola che rimanda a una tragica vicenda, i cui confini si sono potuti spiegare soltanto molto tempo dopo.

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Lingua di Menelik

Tutti (o quasi) avranno avuto almeno una volta tra le mani la lingua di menelik, o menelicche. Che cos’è? È un giocattolo formato da un tubo di carta con all’interno un filo metallico: quando si soffia nel tubo questo si allunga di scatto e assomiglia ad una lingua.

Lingua di Menelik

Menelik IIPerché lingua di Menelik? C’è da sapere che il nome è legato a Menelik II, imperatore dell’Etiopia. Questo sovrano con la sua abilità diplomatica è riuscito ad ottenere l’aiuto italiano per prendere il potere. Subito dopo la sua ascesa, nel 1889, firma un accordo con l’Italia in due lingue: in italiano e in aramaico.
Solo che gli accordi non sono esattamente uguali. Nella versione italiana si dice che l’Etiopia riconosce l’Italia come paese protettore mentre nella versione in aramaico si parla dell’Italia solo come rappresentate diplomatico.

Menelik II

Per questa accusa di avere una lingua in grado di cambiare completamente forma, in epoca coloniale viene dato il suo nome a questo giocattolo che ancora oggi si chiama così.

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