Carlo e Nello Rosselli sono stati due esponenti del socialismo italiano. Nati nel 1899 (Carlo) e nel 1900 (Nello), hanno rappresentato per il socialismo una risorsa di grande importanza, perché, con anticipo di alcuni decenni rispetto all’evoluzione del socialismo europeo, hanno prefigurato un modello di socialismo non marxista, ispirato al laburismo inglese, che tenesse conto dei principi e delle regole della democrazia liberale. Carlo Rosselli scrisse queste idee nel suo libro Socialismo liberale, scritto durante il confino a Lipari, cui fu costretto dal fascismo. Notevole fu il rapporto dei due fratelli con alcune delle figure più illuminate della sinistra italiana, da Piero Calamandrei a Gaetano Salvemini, da Ferruccio Parri a Sandro Pertini, da Ernesto Rossi a Filippo Turati. Perseguitati dal fascismo, riuscirono a fuggire a Parigi, dove viveva una colonia di espatriati italiani che fondò il movimento di Giustizia e Libertà: Carlo vi giunse nel 1929, Nello nel 1937. Il 9 giugno del 1937, Carlo e Nello Rosselli furono assassinati da alcuni militanti della Cagoule, il movimento fascista francese, su probabile mandato dei servizi segreti italiani.
Anna Kuliscioff
Benché nata in Russia, presso una famiglia ebraica della Crimea nel 1854 con il nome di Anna Moiseevna Rozenštejn, Anna Kuliscioff è considerata italiana a tutti gli effetti, perché è stata madre – tra tanti padri – del Partito Socialista Italiano (PSI), nato nel 1892. Trasferitasi a studiare filosofia in Svizzera, cambiò il nome in Anna Kuliscioff, per sfuggire alla polizia dello zar, impegnata nella lotta contro gli anarchici a cui la giovane donna si era avvicinata. A Zurigo conobbe Andrea Costa, anarchico italiano con cui si trasferì in Italia e con cui ebbe una relazione sentimentale e una figlia, Andreina. Insieme, i due passarono col tempo dall’anarchismo al socialismo marxista. Rotto il legame con Costa, tornò in Svizzera per studiare medicina, specializzandosi in ginecologia in Italia. Andò poi a Milano, dove conobbe Filippo Turati, con cui instaurò un legame sentimentale. A Milano era conosciuta come la “dottora dei poveri”, perché andava nei quartieri più poveri della città a curare chi non poteva permetterselo. Insieme con Turati, padre del PSI, diresse la rivista Critica Sociale, offrendo un contributo preziosissimo fatto di traduzioni e letture di spessore europeo che contribuirono a rendere più autorevole e meno provinciale il socialismo italiano. La sua principale battaglia fu il suffragio universale esteso alle donne, ed essere riuscita a convincere lo stesso Turati (inizialmente contrario) le conferì prestigio e considerazione nel mondo socialista. Gli ultimi anni della sua vita furono piuttosto tristi, con le divisioni tra i socialisti, l’avvento del fascismo e l’uccisione di Giacomo Matteotti, una delle menti più brillanti del PSI che lei stessa aveva contribuito a far crescere. Morì nel dicembre 1925 ed è sepolta al Cimitero Monumentale di Milano, dove riposano coloro che hanno dato lustro alla città.
Nilde Iotti
Leonilide Iotti (chiamata poi successivamente solo Nilde) è nata a Reggio Emilia nel 1920. Si è laureata in Lettere; per un breve periodo ha svolto la professione di insegnante e solo successivamente ha iniziato la carriera politica. Durante la seconda guerra mondiale è stata antifascista e dal 1943 ha partecipato alla Resistenza. Nel 1946 è entrata in Parlamento con il PCI (Partito Comunista Italiano), come membro dell’Assemblea Costituente. Il suo ruolo è stato decisivo nella scrittura della Costituzione per l’affermazione dei diritti della donna e della famiglia: il diritto del lavoro per la donna e il diritto alla maternità, punti messi in discussione precedentemente da Mussolini. E’ stata la prima donna a ricoprire il ruolo di Presidente della Camera e lo ha fatto per ben 3 legislature, dal 1978 al 1992: nessun politico oltre a lei ha raggiunto questo primato. E’ stata anche l’unico esponente del Partito Comunista ed essere vicino a diventare Presidente del Consiglio.
E’ morta nel 1999, per un arresto cardiaco, poco dopo aver dato le sue dimissioni politiche.
Critica della vittima – Il potere immacolato
Critica della vittima è un pamphlet scritto da Daniele Giglioli, per i tipi della Nottetempo, nel 2014. Il libercolo è, appunto, una critica al paradigma vittimario. Bisogna innanzitutto sepcificare che questa critica non è un’indagine su chi siano queste vittime e se esse siano realmente tali, non è una mortificazione e neppure uno smascheramento delle presunte vittime. La critica della vittima non si rivolge al chi ma al cosa comporti essere vittime, quindi al potere che ne scaturisce.
«La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittima dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, gatantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto». (p. 9)
Se essere vittima o, ancora meglio, difensori delle vittime è fonte di potere, la critica della vittima appare oggi quanto mai necessaria. Infatti, dal momento che l’essere vittima ci mette nella condizione di poter agire al riparo da critiche (chi critica le vittime è tacciato di mancanza di empatia) allora apparire come vittima diventa l’aspirazione di chiunque punti al potere.
La vittima subisce e le sue azioni sono reazioni, pertanto chi agisce sembra impossibilitato ad agire diversamente. Quindi non è possibile neppure criticare l’agire della vittima. Ciò genera una profonda confusione tra libertà e irresponsabilità. Siamo liberi in quanto siamo responsabili di quel che facciamo, ma se non è possibile agire in modo diverso, allora non si può venire considerati responsabili per le nostre azioni.
La vittima è tale perché soffre, quindi non può smettere di soffrire, il suo dolore è perpetuo e viene costantemente sottolineato. Il dolore perpetuato, però, genera rabbia e tiene vivo il risentimento. La rabbia e il risentimento non si esauriscono perché a questo dolore non ci può essere soluzione.
Nel paradigma della vittima, la storia, intesa come processo condiviso, che è pubblicamente discutibile, diventa storia privata, quindi memoria che non può essere contestata, con la conseguenza di nutrire l’immaginario a discapito dell’analisi.
Lo status di vittima o difensore costituisce una forma di identità e il passato diventa l’unico strumento che orienta l’azione, contrastando ogni forma di traformazione. Da ciò ne consegue che l’identità che lo status conferisce è una identità così irrigidita che non ammette la contraddizione o il conflitto che dovrebbero essere processi naturali della società. Esige un’azione universale.
Tale spinta all’azione, nel momento stesso in cui fa appello alla vita negata, presenta quindi dei caratteri mortiferi:
«La proposopea della vittima rafforza i potenti e indebolisce i subalterni. Svuota l’agency. Perpetua il dolore. Coltiva il risentimento. Incorona l’immaginario. Alimenta identità rigide e spesso fittizie. Inchioda al passato e ipoteca il futuro. Scoraggia la trasformazione. Privatizza la storia. Confonde libertà e irresponsabilità. Inorgoglisce l’impotenza, o la ammanta di potenza usurpata. Se la intende con la morte mentre fa mostra di compiangere la vita. Copre il vuoto che soggiace a ogni etica universale. Rimuove e anzi rigetta il conflitto, grida scandalo alla contraddizione. Impedisce di cogliere la vera mancanza, che è un difetto di prassi, di politica, di azione comune». (p. 107)
La critica alla vittima non vuol dire non riconoscere che la vittima sia tale, che il suo dolore non sia vero dolore e che l’appello alla responsabilità non sia un appello giusto. Pur riconoscendo che la vittima è vittima, il dolore è dolore e la responsabilità resta responsabilità, è fondamentale vigilare verso i mistificatori che cercano di sfruttare la forza della condizione della vittima.
Smascherati i mistificatori, è importante, sottolinea Giglioli, restituire questa forza ai proprietari. La prima mossa in tale direzione consiste nel «cominciare o ricominciare a sentirsi parti in causa, non rappresentanti di una universalità spettrale» (p. 111), contrastando così «l’ossessione cospirativa», l’idea che tutta la società sia unita contro le vittime, perché questa ossessione è semplicemente una «razionalizzazione fallace» (p. 110).
La forza della vittima deve essere una spinta ad agire rifiutando, innanzitutto, una risposta unanime perché «una risposta unanime è soltanto una risposta falsa» (p. 111). Accettare che il conflitto non è risolvibile, accogliere la pluralità, sentirsi parti in causa sono strumenti fondamentali per evitare che la forza della vittima si risolva in un lubrificante dei meccanismi del potere.