La ballata del caffè triste

Un vecchio emporio si trasforma in un caffè, quando una donna dal viso opaco e dai modi spigolosi si innamora di un nano gobbo. Il paese squallido e vuoto, dove “l’anima ti si corrompe nella noia”, si riempie di vita e di personaggi che non vorremmo mai incontrare. Questo racconto lungo di Carson McCullers è un breve viaggio in una dimensione in cui le favole non hanno il lieto fine. Il testo è stato pubblicato nel ’43, negli Stati Uniti in guerra e che cercavano di riprendersi dalla Grande depressione. Eppure sembra raccontare di un tempo dell’anima, in cui dalla finestra che volge su una strada deserta si cerca di intravedere un barlume di felicità. Ma “La ballata del caffè triste” è il breve canto di un’utopia irrealizzata e quando la musica finisce, l’incanto si interrompe. Dopo essere stato fuori commercio a lungo, il libro è stato ristampato nel 2013 e merita una lettura.

La ballata del caffè triste

Incipit:

Il paese in sé è squallido: non c’è nulla tranne la filanda del cotone, le case di due stanze dove vivono gli operai, pochi alberi di pesco, una chiesa con due finestre colorate e una misera via principale, lunga appena un centinaio di metri. Il sabato vengono gli affittuari delle fattorie vicine per una giornata di chiacchiere e commerci. Altrimenti il paese è solitario, triste, come un luogo remoto ed estraniato da tutti gli altri nel mondo.

Citazione:

Prima di tutto l’amore è un’esperienza comune tra due persone; ma l’essere un’esperienza comune non significa che sia simile. C’è chi ama e chi si lascia amare: due persone che vengono da regioni diverse. Spesso l’amato rappresenta solo lo stimolo per tutto l’amore represso che fino ad oggi, da tanto tempo ha atteso l’appello. Ed ogni amante in certo modo lo sa. In cuor suo sente che il proprio amore è solitario. Arriva così a conoscere una uova, singolare solitudine ed è questa consapevolezza a farlo soffrire. Per lui ormai c’è una sola cosa da fare: albergare in sé il proprio amore come meglio può; creargli un intero, nuovo mondo interiore, un mondo strano ed intenso, completo in sé. Si aggiunga qui che l’amante di cui parliamo non è necessario sia un giovanotto il quale fa risparmi per l’anello nuziale; potrà essere uomo, donna, bambino, qualsiasi creatura umana sulla terra. Anche l’amato può avere qualsiasi figura. La persona più impensata sarà stimolo all’amore. Si può essere un tentennante bisavolo e amare ancora una ragazza sconosciuta, vista per le strade di Cheehaw un pomeriggio vent’anni prima. Il predicatore amerà una donna caduta. Si potrà amare una creatura falsa e grossolana, votata ai vizi peggiori e chi l’ama se ne accorgerà benissimo, come chiunque altro, senza che ciò alteri di un atomo l’evoluzione del suo amore. La persona più mediocre sarà oggetto di un amore furibondo, eccezionale e splendido come i velenosi gigli di campo. L’uomo buono susciterà una passione violenta e insieme degradante, ed un pazzo frenetico farà nascere nell’animo un semplice e tenero idillio. Il valore dunque e la qualità dell’amore vengono determinati unicamente da colui che ama. Per questo motivo si preferisce, nella maggioranza, amare più che essere amati. Quasi tutti vogliono amare. E la cruda verità è che per molti la condizione dell’essere amati riesce intollerabile. L’amato teme ed odia colui che lo ama, e a ragione. Perché l’amante cerca sempre di mettere a nudo l’oggetto del proprio amore; e richiede ogni possibile genere di rapporto con l’amato, anche se l’esperienza gli porterà solo dolore.

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L’ebreo che ride

Il riso ha una dimensione salvifica: salva dall’impudenza di prendersi troppo sul serio, disinnesca le critiche, anche le più feroci, libera dalle paure e dalla tristezza, fosse solo per un attimo, e dà respiro allo spirito affranto. Un vecchio adagio yddish dice “l’uomo progetta e Dio ride”, perché ridere ha anche una dimensione divina. Bene lo racconta Moni Ovadia nel suo “L’ebreo che ride”, un libro che nasce da ciclo di lezioni sull’umorismo ebraico che l’autore ha tenuto presso l’Università di Padova. Umorismo ed ebraismo sono connessi fin dalle origini. Infatti, quando l’Arcangelo comunica ad Abramo e Sarah che avranno un figlio sono entrambi molto anziani (cento anni lui, novanta lei) e all’annuncio loro scoppiano in una risata. Il figlio, da cui appunto origina il popolo ebraico, viene chiamato “Isacco”, che in ebraico vuol dire “Colui che rise”. Nel volume di Moni Ovadia rivive l’immaginario del villaggio ebraico dell’Europa dell’est (lo shtetl), con i suoi stereotipi, le sue paure, le sue follie. Un libro scorrevole, ricco e illuminante, come la cultura a cui attinge.

L'ebreo che ride

Incipit:

L’idea del divino che viene attribuita agli ebrei dall’esterno è ben riassunta nella grevità della definizione: “Dio vetero-testamentario”.
Questa formula richiama l’immagine di un Dio decrepito, terribile, vendicativo e geloso. Contumelie e riprovazioni iterate con maniacale e sadica insistenza sono state sopportate da generazioni di ebrei accusati di crudeltà per aver concepito un Dio così implacabile. Alcuni ebrei messi alle corde hanno finito per riconoscere la loro grave colpa.
Un lord inglese, al suo ricevimento annuale, ha invitato anche il Vescovo anglicano ed il Rabbino che, con malizioso intento, sono stati sistemati vicini a tavola.
Il Vescovo non resiste alla tentazione di punzecchiare il rabbino e gli dice: «Rabbino carissimo, suvvia! Lo riconosca! Il vostro Dio è così tremendo, tetragono, minaccioso, vendicativo. Il nostro invece è tutto bontà, perdono, indulgenza, sacrificio…»
«Sono totalmente d’accordo con lei, Vescovo», riconosce candidamente il Rabbino, «il vostro Dio ha preso per sé tutte le migliori qualità e non ne ha lasciata alcuna ai suoi devoti».

Citazione:

Shloimele e Duvidl, due studenti di yeshivà, sono accaniti fumatori, sanno che questo loro vizio è guardato con sospetto, ma la voglia di fumare non li lascia mai. Decidono allora di chiedere al rabbino come comportarsi al riguardo. Va, a nome di tutti e due, Shloimele: “Rabbino, rabbino”. “Dimmi Shloimele caro, cosa c’e’?”. “Rabbino io ti volevo domandare… quando si studia il Toyre, si può fumare?”. “Cosa ti viene in mente, razza di vizioso che sei? Quando si studia, si studia e basta!”. Con la coda fra le gambe, Shloimele torna da Duvidl e gli racconta della lavata di capo che gli ha fatto il rabbino. “Sai quale è il problema con te? – gli dice Duvidl – Tu non sai fare le domande. Lascia, vado io. “Rabbino, rabbino, io ti vorrei fare una domanda”. “Dimmi, Duvidl caro, sono qui per questo”. “Rabbino… quando si fuma, si può studiare il Toyre?”. “Certo, Duvidl caro! Sempre è un buon momento per studiare il Toyre!” esclama il rabbino entusiasta.

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Inviti superflui – Dino Buzzati

“Inviti superflui” è un brano che si trova nella raccolta La boutique del mistero, di Dino Buzzati. Il testo è un soliloquio in cui l’autore si rivolge all’amata in modo struggente, nostalgico e rassegnato.  Il titolo richiama gli inviti che appaiono superflui, perché è impossibile richiamare un amore che, tanto diverso da noi, è ormai lontano.

La boutique del mistero è un’antologia di racconti scritti da Dino Buzzati. Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1968.

Per la scrittura piana e lineare e per le immagini ricche di concretezza, i testi di Buzzati sono molto piacevoli da leggere e godono di molta fortuna all’estero.

 

 

La boutique del mistero - Dino Buzzati


Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.

Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d’essere stanca; solo questo e nient’altro.

Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.

Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.

Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.

Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

tratto da La boutique del mistero, Dino Buzzati

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