Dracula

“Benvenuto nella mia casa! Entrate libero e tranquillo. Andatevene poi sano e salvo, e lasciate un po’ della felicità che arrecate!” è una delle citazioni più ricordate e più celebri del libro. “Dracula” è un affascinante romanzo epistolare scritto dall’irlandese Bram Stoker nel 1897. Il libro si ispira alla figura di Vlad III, principe della Valacchia. Dracula è il non vivente, nosferatu, vampiro, diventato maledetto per aver rinnegato dio, a causa un amore finito troppo presto, condannato a non morire mai, costretto a non vedere mai più il sole. L’eterno dolore di un non più uomo che viene privato di ogni consolazione: “Nessuno può sapere, se non dopo una notte di patimenti, quanto dolce e prezioso al cuore e agli occhi possa essere il mattino” . Il punto di vista è quello dei personaggi che scrivono le loro lettere da cui si comprende che il nosferatu si è trasferito in Inghilterra: “Il mondo sembra pieno di brave persone, sebbene non vi manchino i mostri”. Il libro è scorrevole e coinvolgente, e vita e morte si rincorrono come il giorno la notte: “Perché la vita in fondo cos’è? Solo l’attesa di qualcosa d’altro, no? E la morte l’unica cosa che possiamo essere sicuri che viene”. Al di là delle atmosfere cupe, dei brividi in alcuni momenti, il romanzo è alla fine il racconto di un amore che trascende la vita e di una disperazione che non ha mai fine.

Dracula

Incipit:

3 maggio, Bistrita. Lasciata Monaco alle 20,35 del 1° maggio, giunto a Vienna il mattino dopo presto: saremmo dovuti arrivare alle 6,46, ma il treno aveva un’ora di ritardo. Stando al poco che ho potuto vederne dal treno e percorrendone brevemente le strade di Budapest mi sembra una bellissima città. Non ho osato allontanarmi troppo dalla stazione, poiché, giunti in ritardo, saremmo però ripartiti quanto più possibile in orario. Ne ho ricavato l’impressione che, abbandonato l’Occidente, stessimo entrando nell’Oriente, e infatti anche il più occidentale degli splendidi porti sul Danubio, che qui è maestosamente ampio e profondo, ci richiamava alle tradizioni della dominazione turca.

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Il racconto dell’ancella

Raccontare un mondo possibile, questo possono le grandi menti. Narrare le ferite, creare degli squarci nella nostra quotidianità. Margaret Atwood ne “Il racconto dell’ancella” ci proietta in un futuro distopico terribile proprio perché possibile. Una società in cui le donne sono divise in base alla loro capacità genitoriale in mogli, zie, marte e ancelle. Queste ultime hanno il compito di generare figli per altri, attraverso uno stupro sistematico. “La normalità, diceva zia Lydia, significa ciò a cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrare normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”. Un racconto in cui nessun personaggio è veramente buono e nessuno veramente malvagio, ma tutti riescono ad essere vittime e carnefici, come in tutti i sistemi totalitari. “Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo”. L’oppressione passa attraverso il linguaggio della narrazione, le parole cambiano di significato, alcune diventano tabù. Nel buio più totale, però, non muore la speranza, incisa nella scritta “Nolite te bastardes carborundorum”, che in latino maccheronico è un invito a resistere: “non lasciare che i bastardi ti annientino”.

Il racconto dell'ancella

Incipit:

Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L’impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt’attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l’aleggiare di un’immagine, l’odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde.

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La casa degli spiriti

“Cosí come quando si viene al mondo, morendo abbiamo paura dell’ignoto. Ma la paura è qualcosa d’interiore che non ha nulla a che vedere con la realtà”. La chiamano realismo magico quella narrazione in cui elementi fantastici intervengono nella storia, senza che ciò stravolga il contesto realistico: ” Clara abitava un universo inventato da lei, protetta dalle avversità della vita, dove la verità prosaica delle cose materiali si confondeva con la verità tumultuosa dei sogni, nei quali non sempre funzionavano le leggi della fisica e della logica”. Il romanzo di Isabel Allende, uscito nel 1982, è ambientato in Cile in un periodo che arriva fino al colpo di stato del 1973. Tuttavia, la politica fa solo da sfondo a una storia famigliare e personale. Leggendo il libro si arriva a credere che gli spiriti abitino un mondo parallelo, il dietro le quinte di un palcoscenico, che è la vita di persone che possono assomigliarci. Il romanzo, bello e scorrevole, è un piccolo tuffo in una solitudine da cui è difficile fuggire: “lei non credeva che il mondo fosse una Valle di lacrime, ma al contrario una burla di Dio, sicché era stupido prenderlo sul serio, se Lui stesso non lo faceva”.

La casa degli spiriti

Incipit:

Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore.

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Il correttore

«Lavoro finché mi duole il cervello. Per arrivare all’esattezza perfetta. Per correggere il più infimo refuso in un testo che forse nessuno leggerà mai o che verrà mandato al macero il giorno dopo. L’esattezza. La santità dell’esattezza. L’utopia significa semplicemente l’esattezza! […] significa togliere gli errata dalla storia. Dall’uomo. Correggere bozze». “Il correttore” di George Steiner, scritto nel 1992, racconta di un uomo che nella vita corregge gli errori dai testi non per protervia, ma per vocazione: «È proprio per quelli che vivono in qualche sperduto buco di campagna, nei bassifondi, che dovremmo produrre il lavoro migliore. Perché qualche scintilla di perfezione penetri nelle loro vite sconsolate». Il protagonista del romanzo breve si impegna per donare dei frammenti di perfezione, come squarci da cui intravedere un mondo migliore, come fossero barlumi di speranza. «Sa cosa insegna la Cabala? Che tutto il male, tutte le sofferenze dell’umanità provengono dallo sbaglio di uno scrivano pigro o incompetente che sentì male, o trascrisse erroneamente, un’unica lettera, un’unica e sola lettera nel Testo Sacro. Ogni orrore successivo ci è pervenuto tramite e a causa di quell’unico erratum». Per me questo libercolo è stato illuminante, condividendone la fede di fondo: la realtà si migliora se ci prendiamo cura degli altri e prenderci cura degli altri vuol dire fare attenzione a ciò che doniamo loro, fossero anche solo parole.

Il correttore - George Steiner

Incipit:

Adesso il bruciore sembrava pizzicarlo dietro agli occhi.
Da oltre trent’anni era un maestro nel suo mestiere. Il più veloce, il più preciso tra i correttori di bozze di tutta la città, forse della provincia. Al lavoro ogni notte, per tutta la notte. Affinché i protocolli giudiziari, gli atti di compravendita, gli avvisi delle finanze pubbliche, i contratti, le quotazioni in borsa potessero uscire l’indomani, senza pecche, precisi fino all’ultima cifra dei decimali. Nelle arti dello scrupolo, non aveva rivali. Gli affidavano il controllo dei testi stampati nel corpo più piccolo, la giustificazione delle colonne di cifre più lunghe, gli sterminati elenchi di oggetti smarriti messi all’asta dalla posta o dall’azienda dei trasporti pubblici. Le sue correzioni degli elenchi telefonici, delle liste elettorali e dei censimenti, dei verbali del consiglio municipale, erano leggendarie. Tipografie, pubblicazioni ufficiali e tribunali si contendevano la sua collaborazione.
Ma adesso la sensazione di bruciore, proprio vicino agli occhi, si faceva più acuta.

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Lacci

La quarta di copertina recita: “Che cosa lasciamo, quando lasciamo qualcuno? Una casa, una famiglia, il passato, un’idea di futuro, la nostra peggiore fotografia impressa a fuoco negli occhi di chi abbiamo amato. Passiamo la vita a spaccare vasi e incollare cocci illudendoci di essere nuovi di zecca”.
“Lacci” di Domenico Starnone, pubblicato nel 2014, racconta tutto questo. Che cosa sono i lacci? Legano, tengono insieme o sono di inciampo? I lacci come metafora dei legami familiari: “Nella case c’è un ordine apparente e un disordine reale”. I lacci come corde che ci ancorano al passato: “Rimpiangere il passato è stupido, come è stupido correre dietro a sempre nuovi inizi”. I lacci come verità che ci costringono a stare con i piedi per terra: “Continuerai così per sempre, non sarai mai quello che vuoi ma quello che capita”. Il libro è bello e coinvolgente e dimostra come Starnone sia uno degli autori italiani più bravi degli ultimi anni.

Lacci - Domenico Starnone

Incipit:

Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all’improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata, doverti ritirare a casa a ora di cena, dormire con me e non con chi ti pare, ti fa sentire cretino.

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Tsugumi

“Giornate di una felicità intensa non capitano spesso nella vita. Ed inseguendo quel vivido miraggio che le persone riescono a tirare avanti e a invecchiare”, di questo romanzo è così ne parla l’autrice Banana Yoshimoto. Tsugumi, scritto nel 1989, è un romanzo breve, o racconto lungo, di una ragazza, di un villaggio, di un’amicizia e degli addii che sempre si accompagnano ai luoghi felici. Come altri romanzi di Yoshimoto, nelle parole delicate e nelle immagini soffuse si percepisce la crudezza della realtà: “Gli esseri umani, ovunque si trovino, quando vedono in lontananza, avvolto nella foschia, il porto verso cui sono diretti, capiscono cosa significhi essere uno straniero solo”.

Tsugumi - Banana Yoshimoto

Incipit:

Senza dubbio Tsugumi era una ragazza impossibile.
Ho lasciato il mio tranquillo paesino, in cui si vive di pesca e di turismo, e sono venuta a Tokyo per frequentare l’università. Anche le giornate che trascorro qui sono molto divertenti.
Mi chiamo Shirakawa Maria. Maria, proprio come la Madonna. Però non mi sento affatto una santa. Ma nonostante questo, chissà perché, quando i miei nuovi amici parlano di me, non ce n’è uno che non dica che sono “generosa, o “serena”.

 

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Chiedi alla polvere

“Ricordati di me, / sussurra la polvere” recita la poesia di Peter Huchel. La polvere custodisce ciò che è stato, così era nelle intenzioni di Huchel. Ma la polvere è anche un terra da cui non nasce nulla, come ci mostra Jonn Fante in questo romanzo. Polvere negli occhi, polvere nella gola. “Chiedi alla polvere” (Ask the dust) e forse troverai le risposte che stai cercando. Il romanzo, pubblicato nel 1939 e ambientato nel periodo della Grande depressione, è in realtà fuori dal tempo ma pienamente localizzato nello spazio: la terra arida della California, che rappresenta un po’ il deserto delle aspettative irrealizzate.

Chiedi alla polvere - John Fante

Incipit:

Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.

 

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Mia nonna saluta e chiede scusa

“Mia nonna saluta e chiede scusa”, scritto da Fredrik Backman, è un racconto scorrevole che oscilla tra il reale e il fiabesco, quasi come in alcuni romanzi di Benni. Della fiaba mantiene lo scontro tra bene e male, l’ottimismo e il lieto fine. Del reale, invece, conserva le sfumature dei personaggi e alcune tematiche forti, come la malattia e la morte: “il più grande potere della morte non è far morire le persone, ma fare desiderare a quelle che rimangono di smettere di vivere”. Al dolore per la morte si contrappone quello del sogno, perché come l’autore scrive: “quando il buio è troppo grande per farcela e troppe cose si sono rotte in troppi modi perché si possano riparare, Maud non sa davvero che arma usare se non i sogni”.

Mia nonna saluta e chiede scusa - Fredrik Backman

Incipit:

Elsa è una bambina diversa. O meglio, gli altri dicono che è diversa. Magari, sottolineando che è molto matura per la sua età (Elsa ha sette anni, quasi otto). Lo dicono, ad esempio, il preside della scuola, o gli amici dei suoi genitori. Lei però sa che con quell’espressione in realtà intendono dire che è strana. Perché, se davvero intendessero diversa, Elsa ne sarebbe contenta. 

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La passeggiata

La Passeggiata” di Robert Walser è un piccolo capolavoro. Il testo racconta una passeggiata, appunto, ma lo fa mostrando personaggi e situazioni comuni in modo straordinario. Più che essere accanto allo scrittore sembra di essere seduti sulla sua spalla. 

La passeggiata - Robert Walser

Incipit: 

Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada. Sulle scale mi venne incontro una donna dall’aspetto di spagnola, di peruviana o di creola, che ostentava non so quale pallida e appassita maestà.

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Meno di zero

Meno di zero - Bret Easton Ellis

Ho letto questo libro diversi anni fa, prima di partire per la Germania. Come recita la quarta di copertina “sesso facile, cocaina, feste sempre più trasgressive, auto di lusso, rock a tutto volume”, così a vent’anni mi proiettato in quel mondo molto lontano da quel che ero, ma di cui intravedevo uno squallore che mi affascinava. “Meno di zero” (“Less than Zero“) è il primo romanzo di Bret Easton Ellis, pubblicato per la prima volta nel 1985. Il libro è un racconto della generazione di MTV e dei videoclip, degli anni ’80 e delle copertine patinate. Un racconto disincantato dove tutto, come recita l’omonima canzone, è meno di zero: «Cos’è giusto? Se si vuole una cosa è giusto prendersela. Se si vuole fare una cosa è giusto farla».

Incipit: 

La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles. È la prima cosa che sento dire al mio ritorno in città. Blair viene a prendermi all’aeroporto e la sento mormorare questa frase mentre sale la rampa d’accesso. Dice: – La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles –. Questa frase non dovrebbe infastidirmi, ma non riesco a togliermela dalla testa. Inquietante. 

 

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