“Inutile pretendere d’integrare la morte alla vita e di comportarsi in modo razionale di fronte a una cosa che non è razionale: ognuno si tragga d’impiccio come può, nella confusione dei propri sentimenti”. Simone de Beauvoir scrive “Una morte dolcissima” come diario degli ultimi giorni della madre, malata di cancro, accudita in ospedale, senza far trapelare che il male sta per portarla via: “Mamma ci credeva accanto a sé. Ma noi già stavamo dall’altra parte della sua storia”. Nel libro, traspare il dolore della madre, la sofferenza della figlia, le riflessioni sulla fragilità della vita, gli inevitabili sensi di colpa. La separazione da colei che ci ha messo al mondo è il taglio definitivo del cordone ombelicale, fisico, mentale, emotivo, la perdita di status di figlio, la scoperta di una profonda solitudine. Cambia tutto: si trasformano le città, cadono le maschere, svanisce la magia, le parole restano nude: “negli ultimi istanti di un moribondo si può racchiudere l’infinito”. Il corpo malato, il corpo di un morente, è terra straniera, di cui non possiamo intendere il linguaggio. Chi resta scopre suo malgrado di esserci ancora, per una sovrabbondanza di vita, che ha ricevuto, che ci è stata donata e che non riesce a salvare chi di questo dono è l’artefice.
Incipit:
Il 24 ottobre 1963, un giovedì, alle quattro del pomeriggio, mi trovavo a Roma, nella mia camera dell’albergo Minerva; dovevo tornare a casa l’indomani in aereo e stavo riordinando alcune carte quando squillò il telefono. Mi chiamava Bost da Parigi: – Vostra madre ha avuto un incidente, – mi disse.