La tragedia
Nel capitolo VII, dedicato alla religione, Hegel torna a trattare il mondo greco. Qui non lo considera più come mondo storico, ma lo considera nella sua espressione artistica[1]; parte dall’opera d’arte astratta, segue con quella vivente e conclude con l’opera d’arte spirituale. Quest’ultima espressione artistica viene articolata in epos, tragedia e commedia[2].
Il filosofo nella Fenomenologia insiste molto sul linguaggio come «terreno di una piena espressione spirituale», infatti «il linguaggio assolve il suo compito in quanto costituisce un elemento sensibile dotato di significato»[3]; rileva Kojève che la parola ha due aspetti: l’esistenza empirica, che corrisponde al suono, e l’esistenza non-naturale, che corrisponde al senso[4]. Ed è in quest’ottica che l’epica, la tragedia e la commedia ottengono un ruolo centrale.
Nella parte dedicata alla tragedia, Hegel torna sui temi del capitolo precedente, questo ci permette di avere una visione maggiore e più articolata del mondo greco, così come il filosofo lo concepisce.
Innanzitutto l’evento teatrale considerato dal filosofo tedesco è quello del periodo sofocleo; si parla cioè di un’occasione che era allo stesso tempo rito, assemblea e gara. Un evento religioso, appunto, e non un semplice spettacolo così come avviene già con Euripide.
Nell’epica c’è il primo rapporto dell’eroe con la dimensione divina, ma la sua dimensione è narrativa, segue la semplice successione, e il cantore raccontando il destino dell’eroe ce lo mostra dall’esterno.
Nella tragedia, invece, Hegel parla di un linguaggio “più alto”, l’ordine è concettuale e il personaggio vive gli eventi in prima persona[5]. Afferma infatti il filosofo che «la lingua entrando nel contenuto, cessa di essere narrativa, come il contenuto cessa di essere un contenuto rappresentato. L’eroe stesso è colui che parla»[6]. Come sappiamo, l’azione drammatica era affidata al coro e agli attori; il rapporto con il pubblico presupponeva una fruizione diretta del testo, senza la mediazione della lettura; con il travestimento e la maschera si sostituiva «alla realtà della vita una realtà alternativa», ma non una realtà “fittizia”, «bensì come una realtà dotata di sue proprie leggi spazio-temporali»[7].
Osserva Del Corno: «La prima tragedia si ha quando per la prima volta un uomo lascia la propria identità, riveste quella di un personaggio del passato […] e si contrappone al coro attraendo anche questo fuori dalla sua identità»[8]; passato e presente si annullano, coro e attori divengono protagonisti e il pubblico stesso viene reso partecipe. Con questa trasformazione «può prodursi il passaggio fondamentale dal racconto all’azione, sì che l’evento non sarà più narrato ma vissuto», ma la tragedia non ha nulla a che fare con l’identificazione dei rituali di popoli primitivi: bisogna tener presente l’elemento discriminante, cioè «il fatto che la mediazione fra il racconto e l’azione sia pur sempre rappresentata dalla parola»[9]; ed è a questo che Hegel dà molta importanza. Rimarca ancora Kojève che «mediante il Linguaggio, la soggettività è riconosciuta da tutte le altre; ma questo riconoscimento mediante la composizione verbale è immediato, e in ciò sta anche la sua insufficienza», in quanto «l’esistenza umana non si riduce al Linguaggio»[10].
Nello schema hegeliano la tragedia viene ad assumere una condizione, seppur provvisoria, di equilibrio; ci mostra in «che modo il linguaggio può assolvere il compito di esprimere compiutamente il rapporto della coscienza agente con il “mondo essenziale”»[11].
Il filosofo ripete un concetto espresso nel capitolo precedente:
Lo spirito non sorge nella sua dispersa varietà, ma nella scissione semplice del concetto. Perciò la sua sostanza si mostra scissa soltanto nelle sue due potenze estreme. Queste elementari essenze universali sono in pari tempo individualità autocoscienti, eroi che pongono la loro coscienza in una sola di queste potenze, hanno in essa la determinatezza del carattere e ne costituiscono l’attivazione e l’effettualità.[12]
L’eroe tragico vive la necessità immanente, che è il suo destino, ma, non essendo consapevole di questa realtà, subisce come forza esterna nient’altro che se stesso. Ma l’eroe tragico non è l’eroe epico: mentre il primo si sottomette al destino, il secondo è il suo destino[13]. Mentre l’eroe epico «era muto» ed era l’aedo a «parlare per lui», «l’eroe tragico parla; l’attore parla per lui e prende la sua maschera»; così mentre nell’«Epopea bisogna sapere ciò che avviene», nella tragedia bisogna sapere «ciò che si dice», e mentre «nella guerra straniera (epica)» non c’è «nessun bisogno di parlare; nella guerra civile (tragica)» è necessario il dicorso[14].
Hegel suggerirà, nei suoi corsi di Estetica a Berlino del 1820/21, un paragone fra Achille e Antigone che accenna anche nella Fenomenologia: mentre il destino di Achille è semplicemente quello di accettare con rassegnazione di morire giovane, Antigone «vive la forza del negativo come contrasto inconciliabile»[15]. Ed è nella sua consapevolezza che risiede la superiorità di Antigone; infatti la differenza che intercorre tra i due è la «differenza fra una necessità semplicemente subita e una necessità così intima da esser pur dolorosamente compresa»[16]. Hegel scrive appunto che è nell’epica che «il destino agisce» («das Schicksal waltend ist»); qui l’unica consolazione («Beruhigung») dell’eroe epico è che così è («so ist es!»)[17].
C’è quindi una piena corrispondenza fra l’individuo etico e l’eroe tragico: l’individuo etico è un eroe tragico. Entrambi mostrano come non sia possibile arrivare ad una conclusione e tanto il primo quanto il secondo «presentano un nesso fra l’assoluto e il finito che non può essere definitivo, ma solo un passo verso la consapevolezza che la piena unificazione del finito e dell’infinito è concessa solo al pensiero, al suo inesauribile lavoro di assimilazione della realtà»[18].
Note:
[1] Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 302. Kojève scrive che se nel capitolo VI Hegel scrive della polis e sembra che si riferisca a Sparta, nel capitolo VII i riferimenti sembrano invece ad Atene.
[2] Cfr. F. Iannelli, Oltre Antigone, cit., pp. 40-41.
[3] Cfr. P. Vinci, L’Antigone di Hegel. Alle origini tragiche della soggettività, cit., p. 40.
[4] Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 306.
[5] Cfr. P. Vinci, L’Antigone di Hegel. Alle origini tragiche della soggettività, cit., p. 40.
[6] Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tomo II, cit., p. 241.
[7] Cfr. D. Del Corno, Introduzione, in Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone, tr. it., Milano, Mondadori, 2008 [1982], p. 5.
[8] Ivi, p. 7.
[9] Ibid.
[10] Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 306.
[11] Cfr. P. Vinci, L’Antigone di Hegel. Alle origini tragiche della soggettività, cit., p. 40.
[12] Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tomo II, cit., p. 243.
[13] Cfr. F. Iannelli, Oltre Antigone, cit., pp. 41, 56n.
[14] Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 315.
[15] Cfr. P. Vinci, L’Antigone di Hegel. Alle origini tragiche della soggettività, cit., p. 40.
[16] Ibid.
[17] Cit. F. Iannelli, Oltre Antigone, cit., p. 56n.
[18] Ivi, p. 41.