Le neuroscienze affettive: Panksepp e l’archeologia della mente

Le moderne neuroscienze delle emozioni

Neuroscienze delle emozioni

Le neuroscienze affettive integrano e mettono in dialogo diverse discipline e diversi punti di vista. Questa nuova disciplina, così come tutto lo studio di Panksepp, si confronta, pertanto, con differenti teorie e approcci teorici. Da tali confronti, in molti casi resi espliciti dallo stesso studioso, è possibile sottolineare gli aspetti più originali dei suoi studi e dirimere alcune questioni.
La rivoluzione neuroscientifica moderna inizia, come ricorda Panksepp, quarant’anni fa e tale rivoluzione rappresenta un grande cambiamento nel rapporto tra mente e cervello. Jaak Panksepp ripercorre, quindi, brevemente la storia del rapporto tra mente e cervello evidenziando alcuni punti di svolta per soffermarsi poi su alcuni scienziati con i quali prova a chiarire alcuni aspetti forti della sua teoria. Innanzitutto, in questa storia Panksepp sostiene che la «tendenza a “cancellare a mente dal cervello” […] ha avuto due filoni principali. Il primo filone è il dualismo, la credenza nell’esistenza di due reami ontologici: l’immateriale di fianco al materiale». Uno dei più importanti esponenti di questo dualismo, nella sua versione moderna, è, dice Panksepp, sicuramente Cartesio (1596-1650). L’altro filone, invece, «proviene da un movimento scientifico sorto tra un gruppo rivoluzionario di medici tedeschi impegnati nella modernizzazione del curriculum medico nell’ultima parte del XIX secolo» (J. Panksepp, L. Biven, 2012, p. 57). Questo gruppo di scienziati-medici, che verrà identificato come club di biofisica di Berlino, rigetta le idee ippocratiche sui quattro umori e il vitalismo in generale. Il vitalismo, come sintetizza Panksepp, «seguiva la credenza aristotelica in una forza immateriale capace di causare cambiamenti nel mondo materiale». La vittoria più grande raggiunta dal club di biofisica di Berlino è stata l’affermarsi dell’«approccio alla medicina basato sull’evidenza» (Ivi, p. 58).
L’antivitalismo in psicologia ha, invece, assunto la forma determinante del movimento comportamentista. Come scrive Panksepp, «i comportamentisti decisero di studiare solo le dimensioni esternamente osservabili delle funzioni cerebrali (cioè i comportamenti e gli “stimoli” in entrata dei quali i comportamenti erano le “risposte” in uscita)», quindi «bollavano in maniera pretestuosa le inferenze relative a forze mentali di ogni tipo […] con la nozione discreditata di forze vitalistiche» (Ivi, p. 60).
Il vitalismo non va confuso, però, con il mentale, difatti «il vitalismo propone l’esistenza di una realtà non fisica fondamentale» e le forze vitalistiche «non erano concepite come aventi un antecedente biologico o una base fisica», mentre la «mentalità, d’altro canto, ha antecedenti biologici ed è inequivocabilmente una proprietà del cervello fisico. Non è una forza della natura disincarnata. È una funzione del cervello e può perciò essere studiata secondo i normali canoni scientifici, proprio come ogni altro fatto biologico» (Ivi, p. 61).
Il comportamentismo aveva comunque fornito un rigore che era mancato al campo della psicologia, pur non impegnandosi nello studio del cervello. Nonostante l’analisi sofisticata del comportamento e lo studio in laboratorio dei cambiamenti comportamentali, i comportamentisti non hanno in genere tenuto in considerazione le intuizioni di Darwin. Questi, come abbiamo visto, sostiene che i comportamenti degli animali ci forniscono delle importanti indicazioni sui loro stati affettivi. Né ha trovato sponda, nel movimento comportamentista, la tesi sostenuta da William James (1842-1910), per il quale i sentimenti emotivi seguono le manifestazioni interiori. Infatti l’obiettivo dei comportamentisti «era creare una scienza altamente replicabile per mezzo della quale i ricercatori potessero individuare le variabili del “controllo comportamentale”», pertanto, «molti di loro non hanno mai davvero dichiarato di essere alla ricerca della comprensione dei meccanismi fondamentali che controllano il comportamento animale. Nel loro dominio limitato, essi desideravano semplicemente specificare e predire come gli animali si sarebbero comportati in ambienti ben controllati piuttosto che nel mondo reale, dove si trovano in natura (questa era nella sfera d’azione degli etologi)» (J. Panksepp, L. Biven, p. 67).
Il comportamentismo, che è stato a lungo dominante nella psicologia accademica, perde influenza verso la fine del XX secolo, con quella che Panksepp chiama «rivoluzione cognitivista». I cognitivisti sottopongono la mente a indagine scientifica. Come sintetizza Panksepp, «gli scienziati cognitivi, ispirati dallo sviluppo dei computer, sostennero che la mente fosse come un computer vivente che permetteva alle persone e agli animali di calcolare le contingenze e prendere decisioni che guidavano il comportamento». Da qui nasce «la teoria computazionale della mente, e di nuovo essa non poteva essere compresa, presumibilmente, senza ricerca sul cervello». I cognitivisti, però, si concentrano soprattutto su quegli «aspetti dell’attività mentale legate “all’elaborazione dell’informazione”», quindi soprattutto sulla percezione e sull’apprendimento escludendo, dalla loro ricerca, «le questioni relative agli affetti, motivazioni ed emozioni». Infine il loro interesse è stato, soprattutto, verso «la cognizione negli esseri umani, sicché la ricerca sugli animali rimase ancora sotto l’influenza del comportamentismo» (Ivi, p. 67). Quindi mentre la tradizione comportamentista «non accetta i sentimenti emotivi come parte del proprio programma di ricerca», la tradizione cognitivista «è disponibile a considerare i sentimenti affettivi come una sottocategoria dei processi cognitivi e nulla più» (Ivi, p. 68).


  • Panksepp J., 1998, Affective Neuroscience: The Foundations of Human and Animal Emotions, Oxford University Press.
  • Panksepp J., Biven L., 2012, The Archeology of Mind. Neuroevolutionary Origins Of Human Emotions, New York, W.W. Norton & Company (tr. it. Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Milano, Cortina, 2014).

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mario ambrosioni
mario ambrosioni
2 anni fa

Grazie!